Luigi, l’ultimo alpigiano?

18 marzo 2020 - 12:33

All’estremo Nord del Piemonte, al confine con la Svizzera, la val d’Ossola ospita i comuni di Macugnaga e Formazza. Macugnaga si trova ai piedi della seconda montagna più alta d’Europa, il Monte Rosa; Formazza è invece adagiata in un’ampia valle che presenta alla sua testata l’imponente cascata del Toce.

Due paesi che hanno in comune l’origine Walser, il popolo che dal Vallese, a partire dal XIII secolo, colonizzò i territori più impervi e inabitati delle Alpi. Una memoria ancora impressa nelle case in legno e nel paesaggio ricco di prati-pascolo.

L’ambiente alpino, oggi particolarmente ospitale, è il frutto del lavoro secolare degli uomini che, attraverso l’annuale transumanza dai paesi del fondovalle agli alpeggi, hanno da sempre “caricato” le alte quote con il bestiame. Dai pochi mesi estivi trascorsi in alpeggio dipendeva il destino economico delle famiglie in previsione del rigido inverno. Per questo l’alpeggio ha rappresentato il centro della vita del montanaro, adeguata per necessità, alla verticalità del territorio. La salita dal fondovalle inizia a giugno appena l’erba è pronta per il pascolo e termina a settembre, “tre mesi con mucche capre e pecore” (E.C.).

La transumanza verso l’alpe avviene solitamente tra il 20 di giugno e il 15 di luglio, a seconda dell’altezza dell’alpeggio e della quantità di pascolo a disposizione. “Si andava su tutti assieme, noi avevamo sempre due mucche e una giovenca, ci davano da portare 20 chili di sale o farina, riso da portare su, e i recipienti del latte” (E.C.). Oggi le esigenze sono cambiate, molti alpeggi sono stati abbandonati e in pochi salgono sull’alpe per necessità. Pastori e alpigiani, ora costretti a un faticoso confronto con i cambiamenti sociali ed economici hanno trovato una nuova collocazione.

Luigi, l’ultimo alpigiano?

Macugnaga ha visto l’abbandono della maggior parte dei propri alpeggi, che rimangono meta per piacevoli escursioni. Luigi è stato l’ultimo alpigiano a Macugnaga con la baita in pietra e legno, la stalla sottostante e il focolare per la lavorazione del latte vicino al giaciglio. Lui saliva all’alpe per passione e tradizione: “morirà tutto, ci saranno solo sterpaglie. Faccio da trenta anni il pastore, sono stato qua e anche in qualche altro alpeggio. Ho fatto il primo formaggio che avevo 13 anni. Adesso ho poche vacche perché sono vecchio, ma prima ne tenevo una trentina. Io qua mi sento giovane e alle volte mi sento “alto”, l’unica fatica è cambiarsi i calzoni se devo scendere a fare qualche cosa. Sono nato in una mangiatoia credo, i miei erano alpigiani. Ho girato anche l’Italia e so come sono le cose fuori. Quando ero in Sardegna a lavorare, la domenica quando si andava sulle alture in gita, sentivo i campanacci e allora chiudevo gli occhi e vedevo le nostre montagne. Vengo qua perchè sento che c’è qualcosa di più forte che giù, l’amicizia è diversa sulla montagna! La vita della città è dura, se mi regalassero una casa a Milano non ci andrei, c’è tutto, ma non si può stare.”

Lo sfruttamento delle miniere aurifere e il conseguente arrivo del turismo di massa hanno allontanato gli alpigiani dal lavoro in alpe. Oggi solo più pochi allevatori, con qualche concessione alla modernità, continuano a crederci e a far sopravvivere la tradizione dell’allevamento ma l’alpeggio non è più destinato ad essere una parte rilevante dell’economia della valle.

 

Bettelmatt, una prospettiva di qualità

Se a Macugnaga la morfologia del territorio ha inciso sul progressivo abbandono della transumanza, la comunità di Formazza ha assistito ad un recupero, non sempre agevole, del lavoro in alpeggio. Dalla voce dei protagonisti di oggi le contraddizioni di un’attività secolare: “gli alpeggi sono andati quasi in disuso ed era difficile trovare gente che ci andasse. Negli anni Settanta circa sembrava si stesse abbandonando l’attività, una crisi culturale più che economica. Era il momento difficile, accettare lo sradicamento della cultura, e la fabbrica aveva soppiantato la tradizione” (R.P.).

Il turismo in questa valle è arrivato tardi, sono stati i lavori per lo sfruttamento dell’energia elettrica che hanno attirato manodopera dagli alpeggi offrendo un impiego meno oneroso. “L’Enel ha portato via lavoro e ha un po’ rovinato l’iniziativa locale. Tutto ha contribuito all’abbandono, si vive molto meglio ora, ‘la vacca ha smesso di far latte’ e noi non abbiamo neanche la luce in alpeggio, usiamo i generatori! La popolazione si è arenata sull’Enel, la grande industria.”(F.B.)

Nonostante questo la felice predisposizione dei pascoli oltre i 2000 metri e la varietà di erbe che crescono nei suoi prati, come l’“erba muttelina”, ha permesso la conservazione di una rinomata produzione d’alta quota, quella del formaggio Bettelmatt. Questo formaggio è diventato un rinomato prodotto che arriva oggi nei migliori ristoranti di Milano e solo in negozi selezionati. Una produzione di nicchia, frutto della tradizione walser, che ha riportato in vita un’attività a rischio di estinzione. La maggiore attenzione per gli alimenti tipici e di qualità, sostiene un’attività secolare e anche se “l’alpeggio è un business. Da quando il formaggio è diventato famoso è tutto cambiato, c’è una corsa all’alpe” (R.A.), a Formazza la stagione estiva vede ancora ripetersi il secolare transumare di uomini e bestiame verso le terre alte.

Testo di Sara Montoli

 

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