Cenge: un fascino irresistibile sulle Dolomiti Orientali

Cenge sottili, strette, incerte, altre belle comode, larghe tanto da passarci con un carro. Ardite corsie sospese tra pareti che da lontano o dal basso, sembrano insormontabili e che poi, con un po’ di mestiere, coraggio ed esperienza, trovi spesso facilmente percorribili

19 marzo 2020 - 16:08

La cengia è una originale struttura naturale.

Segna la fronte dei monti e nel suo andamento orizzontale sembra niente più di un motivo ornamentale, ma quando l’uomo colonizzò la montagna scoprì ben presto nelle cenge i numeri di una combinazione che apriva tutte le porte, il mezzo per eludere le barriere della verticalità.

Nelle vecchie imprese alpinistiche la cengia ebbe ancora questa funzione, poi perse progressivamente importanza, per divenire solo un punto di sosta lungo le arrampicate del filo a piombo, nelle quali gli ostacoli non si evitano più.

La cengia continua ha anche un’altra vita, quella scritta nella storia delle genti che la praticavano non per svago, ma per sopravvivenza.

Cenge: un lasciapassare naturale

Cacciatori sulle tracce di camosci, soldati impegnati nelle tragiche guerre, per un appostamento, una via di fuga o approvvigionamento, boscaioli, carbonai con le gerle in spalla, guide, pionieri venuti da lontano a cercare una via di salita che li portasse sulle cime, alpinisti in cerca di gloria, gente di montagna, tutti loro le hanno percorse.

Ogni cengia ha dato un’opportunità, rivelato un passaggio, un possibile orizzonte in cui guardare oltre.

Anche Charlie Chaplin in “La febbre dell’oro” all’inizio del film appare come un disinvolto cercatore d’oro che cammina lungo una cengia esposta ed innevata seguito da un orso.

Le cenge poi sono il terreno preferito dei camosci che le utilizzano come vie di fuga o nei vari spostamenti da un versante all’altro della montagna.

Queste vie trasversali, che a volte si presentano insidiose, con pochi appigli, roccia friabile e passaggi esposti e vertiginosi di II o III grado, sono il lasciapassare, la chiave logica che apre le porte a traversate che altrimenti non sarebbero possibili: la continuità di una progressione, il collegamento da monte a monte, da cima a cima sarebbero impediti.

Sono linee ardite, per amanti dell’esposizione e del vuoto e, a volte, per acrobati dell’aria.

Camminamenti segnati solo da ometti o tagli di mughi, nel più dei casi solo traccia di passaggio accompagnata da qualche vecchio cordino rimasto a penzolare e a dirti che sei nella via giusta.

Cenge che, nella loro selvaggia bellezza e nell’iperbole di altezze rocciose, non hanno nulla di che invidiare alle vie verticali.

Sì, perché mentre in queste ultime la corda garantisce e infonde una certa sicurezza, in quelle orizzontali, spesso da slegati, le cose cambiano totalmente.

Ci vuole preparazione, esperienza, abitudine al vuoto, dimestichezza con i terreni friabili, con quei passaggi all’apparenza facili, ma che poi si rivelano infidi, difficili, perché le mani e i piedi non trovano maniglie, ma minuscole tacche e appigli, non sempre solidi, a volte solo rughe di roccia.

Sono percorsi di grande intuito, opere d’arte rivelate, dapprima dalla neve che vi si adagia, e poi esplorate e percorse dai maestri della roccia e delle altitudini, che hanno saputo prima seguire e poi disegnare linee mirabili.

Riscoprirle e riproporle oggi vuol dire andare a rivivere forti emozioni e quel senso di avventura con la “A” maiuscola che, come dice l’amico Franco Miotto, grande alpinista e profondo conoscitore di cenge e viàz, è qui, fuori dalle porte di casa, non c’è bisogno di andarla a ricercare lontano, in località esotiche.

Afferrami alla vita uomo. La cengia è stretta e l’abisso è un risucchio spaventoso che ci vuole assorbire” scriveva l’alpinista e poetessa Antonia Pozzi, ma la cengia è anche un approdo, una via di fuga e salvezza per lo spirito…, un poggiolo naturale dal quale poter ammirare l’orizzonte dei propri sogni.

 

 

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