Alle sorgenti del Gange: un insieme di umanità

19 marzo 2020 - 15:47

Gange. È una fredda domenica di gennaio, seduta davanti ad un camino scoppiettante sfoglio un libro fotografico sull’India. Un’immagine mi colpisce nel profondo e un brivido mi pervade tutto il corpo. Immerso in meditazione, un Sadhu – santone induista – è immobile nella posizione del loto, circondato da alte vette di ghiaccio e da un fiume spumeggiante. Sembra aver raggiunto il Nirvana, il suo punto d’incontro con il divino, e nulla in quel momento pare distrarlo.

Gange: la porta verso gli dei

Un desiderio irrefrenabile si scolpisce all’istante nel mio cuore e nella mia mente: lì, voglio arrivare anch’io! Un viaggio nella fede Haridwar, in lingua indi “porta verso gli Dei”, è un importante luogo di culto della piana gangetica, dove inizia il Char Dham, il pellegrinaggio induista attraverso le città sante himalayane fino alla sorgente del Gange.

Per arrivare ai gath, gradini lungo la riva del fiume dove i fedeli hindùs vanno a pregare, ci si deve aprire un varco fra derelitti che, con la loro ciotola, vivono di elemosine. Sono gli intoccabili, ultimo gradino della scala sociale; lebbrosi, storpi che mostrano ossa contorte, arti a pezzi, corpi devastati da deformazioni che mettono in evidenza una malattia orrenda: la peste bubbonica. È terribile per un occidentale osservare questa gente, pensando che il nostro superfluo potrebbe essere per loro ragione di vita. Ma i loro occhi ci rassicurano.

Limpidi, sereni, pieni di fiducia verso la nuova vita che verrà, migliore, dopo questa. È attraverso quest’inferno che si deve passare per raggiungere la riva del fiume più venerato del mondo: il Gange.

Gange: un collage di umanità

Seduti sulla riva, osserviamo in silenzio la vita che pullula sulle sue sponde e i nostri sensi si riempiono di colori, odori, suoni, grida, gesti, preghiere. Centinaia di persone s’immergono nelle sacre acque bagnandosi il capo; i sari delle donne svolazzano in controluce mostrando silhouette snelle o grosse pance che denunciano le tante maternità e l’opulenza di una vita agiata.

Il rosso e l’arancio dei tagetes, omaggi floreali agli dei, spicca dalle ciotole fumanti d’incenso, mentre sagome indefinite, a mani giunte o prostrate a terra, si dissolvono fra le fiammelle delle offerte (puja). Tutti chiedono a Shiva una vita migliore, senza malattie, carestie e miseria.

Offrono latte al fiume, cibo ai pesci e, su una foglia di pipal, pianta sacra al dio del fiume, ceri accesi, fiori e incensi vengono affidati all’acqua con la speranza che la corrente li conduca lontano.

Lasciata Haridwar risaliamo il corso del fiume fino a Rishikesh, tranquilla cittadina ai piedi delle colline Shivalik, luogo ideale per la meditazione. Le rive del fiume sono disseminate di ashram, i centri di meditazione dove si pratica lo Yoga; questa cittadina divenne famosa negli anni ‘60 quando i Beatles giunsero fin qui per incontrare il loro Guru e passare un periodo in meditazione.

Ganga Dusshera

Alla sera il vento che proviene dall’Himalaya soffia sulla valle facendo suonare le campane. Un dolce suono che coincide col battito del nostro cuore mescolandosi a canti, preghiere e alla grande energia di migliaia di pellegrini che si riversano nei templi e s’incanalano lungo il ponte sospeso che congiunge le due rive del fiume; tutti diretti là, al Ganga Dusshera, la grande cerimonia in onore del dio Shiva. Al culmine della festa i sacerdoti passano tra i fedeli con grandi cobra in ottone da cui si sprigiona il fuoco purificatore.

Gangotri: qui l’aria è pura e rarefatta

Superata Rishikesh risaliamo la strada che ci porterà nel cuore del Garwhal, dove tra le montagne himalayane dimorano gli dei, e alla città santa di Gangotri, a 3.000 metri, dove l’aria è pura e rarefatta.

La nostra jeep arranca sulla stretta via che, per 210 chilometri, sale come un serpente lungo scarpate, dirupi, precipizi senza fine, destreggiandosi fra buche, sassi, corsi d’acqua che precipitano dalle montagne e sgangherate corriere cigolanti stracariche di pellegrini che sbucano dalle curve a velocità pazzesca. La strada si fa sempre più ripida e stretta, quasi inaccessibile, come se volesse precludere l’ingresso per proteggere questo luogo di fede.

Raju, il nostro autista, raramente stacca gli occhi dalla parete; sembra che il pericolo maggiore venga proprio di lì, da qualche sasso o frana improvvisa.

Trekking tra le montagne degli dei

Dal piccolo villaggio di Gangotri, immerso in boschi di cedri, parte il sentiero che conduce verso uno dei luoghi più sacri del mondo: le sorgenti del Gange.

La prima tappa è molto lunga: 14 chilometri con un dislivello di 890 metri che compiremo in 6 ore. Il ripido percorso si fa strada nella rada foresta di cedri e il loro profumo ci accompagna inebriandoci. Poi, all’improvviso, la dolcezza scompare e anche il sentiero, che si riduce ad un’esile traccia scavata nella roccia a picco sul fiume tumultuoso. A volte scompare del tutto e, quel che resta è solo lo spazio per il piede, mentre improvvise cascatelle rendono il terreno scivoloso.

Quando poi s’incontrano muli che salgono e scendono trasportando pellegrini, è il panico! Ci incolliamo alla parete e un brivido ci assale quando, incontrandosi fra loro, scalciano facendo oscillare paurosamente il povero carico umano sul precipizio. Oltrepassiamo anche il punto più pericoloso, chiamato dai locali Rolling Stones, dove la parete scarica sassi in continuazione. Calpestiamo chilometri di orme di scarponi, zoccoli, piedi nudi che si stampano sul sentiero creando un disegno magico che cambia in continuazione perché il passaggio è continuo.

Alla fine della tappa, a 3892 metri di quota ci aspetta l’ashram di Lal Baba, una stamberga che, trasfigurata dalla stanchezza ma soprattutto dal paesaggio, ci sembra una reggia. Dalle piccole finestre entrano i riverberi delle vette di ghiaccio dei Bhagirathi, colossi himalayani che superano i 7000 metri.

Dobbiamo già fare i conti con l’alta quota: siamo saliti troppo in fretta senza acclimatarci, e ci ritroviamo con un gran mal di testa e inappetenza. Sarà una notte tremenda, non solo per l’altitudine, ma anche per i piccoli animaletti che si rincorrono sulle pareti: scarafaggi, gechi, mentre un topino squittisce sotto a chissà quale letto prendendosi gioco di noi che, atterriti, ci chiudiamo ermeticamente nel sacco a pelo attendendo con ansia il mattino.

Gange: alle sue sorgenti

Alle prime luci partiamo per Gaumukh, la “Bocca della mucca”, dove nasce il Gange, a 4.100 metri, lungo un sentiero percorso da pellegrini per nulla turbati dalla fatica e dalle mille difficoltà e disagi che presentano questi vertiginosi sentieri.

Tutti hanno un’unico scopo: bagnarsi nell’acqua del fiume che toglie ogni peccato e malattia. Con sé hanno una bottiglia che riporteranno colma a parenti e amici, un regalo molto prezioso! Il fronte del ghiacciaio, di oltre 200 metri di altezza, si scorge dall’ultimo chilometro in tutto il suo candore.

Questo tratto lungo il fiume che corre impetuoso, è disseminato di Sadhu che, in perizoma, fra rocce e ghiaccio, compiono le loro abluzioni dipingendosi la fronte con strisce bianche: indicano la rinuncia ad ogni bene terreno. Seduti, resteranno per ore a guardare il fiume con il piatto delle offerte pieno di piccole cose, fra le quali la pallina scura dell’hashish, di cui i Sadhu fanno uso per combattere il freddo e la fame.

Tapovan: sempre più vicini al cielo

La meta sognata Tapovan, ultima tappa verso gli dei… questo nome ci ha martellato il cervello per mesi. Riusciremo a raggiungere i 4600 metri di Tapovan? E se c’è neve? E se soffrissimo l’altitudine? E se… ai piedi dell’ennesima salita ci prende lo sconforto: attacchiamo gli ultimi 200 metri di dislivello che si arrampicano lungo un sentiero quasi inesistente, ripidissimo, franoso, una parete di sassi e polvere che cede sotto il peso del nostro corpo.

Il fiato esce a stento, il vento è forte e gelido, i sassi rotolano e la polvere ci avvolge, quasi a volerci evitare di vedere il baratro sotto di noi. Ma all’improvviso sbuchiamo in paradiso!

Tapovan, la meta tanto desiderata è un prato immenso, affacciato sul Gangotri Glacier; tutt’attorno decine di montagne talmente belle da togliere il respiro. Fissiamo le tende sotto alla piramide verticale dello Shiviling, venerato dai fedeli induisti, perché considerato il lingam del dio Shiva.

Dall’altra parte i Bhagirathi, scintillanti di neve e ghiaccio, intimoriscono con la loro imponenza. In disparte, un altro gigante, il monte Meru adorato dagli indù perché posizionato al centro del mondo. Ai piedi di queste alte vette ci sono caverne dove vivono i Sadhu più puri, quelli che hanno scelto il distacco totale con il resto del mondo. Vivono quasi nudi nel gelo himalayano, cibandosi di riso e ceci ed alcuni non scendono neppure d’inverno quando la neve ricopre il loro misero rifugio. Passano la vita tra privazioni e solitudine rinunciando a tutto e non temono nulla, neppure la morte.

Guardo lassù e cerco di immaginare come sia possibile che, fra quelle nevi perenni, possano sopravvivere uomini di 200, 300 anni… almeno così narrano i saggi. Non so se questo è vero o sono solo leggende, di certo questo è un luogo magico e, contemplando il panorama, all’improvviso mi pervade una grande calma interiore e, per una viaggiatrice come me, questo rappresenta il Nirvana.

Tra religione e magia

Fino a Gaurikund la jeep arranca sulla strada sospesa nel vuoto, a mala pena si riesce a scorgere il corso del fiume mille metri più sotto. Da lì parte il sentiero per la città santa di Kedarnath, situata a 3584 metri di altitudine, che si raggiunge dopo 15 chilometri di estenuante salita a piedi, coprendo un dislivello di 1600 metri.

I pellegrini più ricchi salgono a dorso di mulo o in portantina, gli altri affrontano faticosamente la ripida salita creando una processione silenziosa di intensa spiritualità.

Secondo la religione indù, chi intraprende un pellegrinaggio alle città sante vedrà tutte le sue colpe cancellate e sarà purificato nel corpo e nell’anima.

Ci accompagna, mischiato al rumore del vento, degli zoccoli dei muli e dei respiri ansimanti, il suono delle cascate e lo scroscio della pioggia che, a tratti, cade sui volti e sui colorati impermeabili di plastica. La grande catena del Kedarnath, con i suoi 6940 metri, abbraccia tutto il villaggio che si stringe attorno al tempio; dall’alba fino alle 10 di sera un’interminabile fila di fedeli attende il proprio turno per le offerte da donare al lingam del Dio Shiva, dotato qui di un grande potere.

Alla sera, in un’oscura bottega insieme ad alcuni portatori nepalesi, ci gustiamo un ottimo Nescafè, poi torniamo, a malavoglia, nella nostra gelatissima stanza: neppure le calde piume d’oca del sacco a pelo, il pile e tutto quello che abbiamo da metterci addosso riuscirà a scaldarci, mentre una subdola morsa alla testa ci ricorda che, anche qui, i 3580 metri di quota sono stati raggiunti troppo in fretta!

Il viaggio continua e, dopo una sosta per dormire a Ukimath, luogo paradisiaco immerso nelle risaie con una splendida vista sulla catena del Kedarnath, e un’altra giornata di jeep tra frane e precipizi, il cuore batte così forte che neppure i 3400 metri di Badrinath, l’ultima città santa, riescono a farlo ulteriormente accelerare.

Nel regno di Vishnu

Siamo nel regno di Vishnu e il suo tempio, attorno al quale si aggrappano le poche case del villaggio, occupa una spettacolare posizione all’ombra del Nilkantha, la cui cima innevata raggiunge quota 6558 metri.

I roccioni su cui poggia il tempio emanano un vapore perenne provocato da sorgenti sotterranee di acqua calda. Alla sommità, vasche e rubinetti offrono ai fedeli un bagno purificatore che li laverà da ogni peccato. Appena sopra nasce l’Alaknanda che, nella sua corsa verso la pianura, a Deoprayag, si unirà al Bhagirathi segnando il punto in cui, “ufficialmente”, inizia il corso del Gange.

Tra le strette viuzze che si snodano attorno al tempio bancarelle di simboli sacri, immagini di divinità, opuscoli religiosi, medicine Ayurvediche, fascette per le puja, boccette con l’acqua sacra del fiume e i Rudraksh, rosari usati per le preghiere e realizzati con le noci dell’albero omonimo.

Odori di spezie e fritto, dolci, dhal, la zuppa di lenticchie che rappresenta spesso l’unico cibo insieme al chapati, simile alle nostre piadine, e alle verdure. Respiriamo a pieni polmoni queste atmosfere, cercando di riempirci gli occhi di tutto ciò che ci circonda per poterlo chiudere a chiave nel nostro cuore.

Sono stata molte volte in India, ma mai come in questi luoghi mi sono sentita così vicina a Dio. L’Himalaya, la terra delle nevi, penetra attraverso la pelle, circola nelle vene fino a prendere possesso della tua anima e solo quando torni a casa e ritrovi il tuo mondo, le tue comodità, allora capisci realmente quanto ti ha dato.

Testo di Odetta Carpi – Foto di Oreste Ferretti

NOTIZIE UTILI

Quando andare

Il periodo migliore per compiere il Char Dham ed il Trekking và da metà maggio a fine giugno, prima dell’arrivo del monsone (luglio e agosto); e da metà settembre a metà ottobre prima dell’arrivo dell’inverno. Lungo il Gange, il periodo buono per un viaggio è anche l’inverno, quando le temperature sono moderate.

Indirizzi utili

Ambasciata dell’India Via XX Settembre, 5 – Roma Tel. 06.4884642 l

Consolato dell’India Via Larga, 16 – Milano Tel. 02.8690314

 

 

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