Lungo la via Latina

18 marzo 2020 - 9:54

questo nostro incredibile viaggio alla scoperta di elementi storici, naturalistici e paesaggistici parte da Vairano Patenora. L’antico borgo ci accoglie dall’altodel suo diruto castello medioevale posto su quell’altura denominata “del Piesco”. Possenti e spettrali mura da cui si ha un completo dominio sulle vallate sottostanti e la piana del Volturno; aspri bastioni che hanno dovuto contrastare, per secoli, agli assalti degli invasori. Il paese, che si estende lungo le propaggini boscose (castagneti) del monte Calevola (588 m), è di remote origini e l’abitato (il cui antico nome era “Bairum”) ha restituito tracce di insediamenti risalenti al 1° millennio a.C.
Fu così allora, che dopo le aspre guerre tra Sanniti e Sidicini (IV secolo a.C.) la zona prosperò sotto i romani mentre, con l’avvento dei barbari, i Normanni eressero un primo castrum, successivamente abbattuto e fatto ampliare, nell’XI secolo, dal Barone Innico Il d’Avalos. La poderosa fortezza consta di quattro enormi torrioni che ne delimitano le bastionature e le merlature, mentre una lunga serie di torri (15 o 16) perimetrano le mura che, estendendosi ai suoi piedi hanno determinato la crescita e lo sviluppo del successivo abitato, fino ad oggi lasciato in completo stato di abbando. Ora fortunatamente, grazie alla sensibilità degli abitanti sta nuovamente vivendo un graduale riavvicinamento tra la popolazione e queste sue antiche mura. L’articolazione medioevale del borgo, con supportici, stradine sinuose scavate tra la roccia, porte arcuate, possenti mura in pietrame a vista, suscita ancora nel visitatore quell’immagine raccolta e modesta della vita di un tempo.
Superata la Porta meridionale, si giunge ad una piccola spianata su cui prospettano le spettrali mura di ciò che fu l’antica Chiesa dedicata al culto della Madonna dell’Incoronata. Sulla facciata d’ingresso, in una “lunetta”, si possono ancora vedere le percettibili tracce di un affresco (a carattere sacro) e di un architrave in pietra su cui è incisa una data: 1632. Di questa chiesa si racconta che, al sopraggiungere del vespro, i rintocchi della campana richiamassero l’attenzione delle genti (residenti all’interno del Castello) che, impegnate al lavoro nei campi o lungo i boschi circostanti, dovevano affrettarsi a rientrare per non essere costrette a restare al di fuori delle mura.
Dall’antica Chiesa dell’Incoronata uno stradello lastricato che mena in leggera discesa, verso l’antica fontana detta “La Terra”, e da lì è possibile giungere ai ruderi di ciò che resta dell’Abbazia della Ferrara, ove la leggenda s’impossessa della storia. Immaginando di essere tra i confratelli protagonisti di “echiana” memoria, l’abbazia ospitava al suo interno 88 frati. La vita scorreva semplice e normale, basata su quei ritmi e quegli impegni sia spirituali che di meditazione, tipici delle regole monastiche tra le più conosciute del medioevo, fino a quando un giorno uno dei confratelli non cominciò a mostrare segni di “disobbedienza” ad alcune di queste fondamentali regole. Questi non prendeva più parte alle preghiere comunitarie, non pranzava più insieme agli altri confratelli e tutto ciò cominciò a destare stupore e sconcerto tra i residenti del sacro edificio, fintantoché il priore non cominciò ad avere sospetti e ad indagare sull’inconsueto ed anomalo comportamento del monaco. Lo convocò, cercando di capire il perché di tali e ostili atteggiamenti fino a che, durante uno di questi colloqui, ebbe l’istinto di togliersi i grani del santo rosario che portava, come una cintura, in vita e cercò di tirarlo tentando di cingergli il collo. L’oscura figura dello strano monaco cominciò, allora, tra acri odori di zolfo e saettanti bagliori di luce, a rumoreggiare fino a gonfiarsi, divenendo sempre più enorme, pronunciando incomprensibili frasi ed a diventare, nel giro di pochi attimi, una enorme palla di fuoco (…ancora questo “particolare” elemento) che, sbraitando urla disumane, schizzò fuori dal sacro edificio fino a perdersi nel fitto della vicina boscaglia. Oggi è ancora possibile vedere, in un boschetto adiacente ai ruderi dell’abbazia, una striscia (alcune decine di metri) di erba rinsecchita ove difficilmente il prato ed i cespugli del sottobosco riescono a prendere fioritura…
Ritornando al Castello si discende dal versante opposto attraversando le diroccate case del borgo antico. Un particolare elemento architettonico desta la nostra attenzione: la bianca cupola dell’antica Chiesa dedita al culto di S.Tommaso (ma che i vairanesi comunemente chiamano di S.Lucia), il patrono di questa comunità, e dove la storia, ancora per una volta, cede il passo alla leggenda. Narrano gli anziani che i loro avi, più volte sottoposti alle continue incursioni dei Saraceni, le cui orde provenivano dalla lontana costa, decisero durante una di queste, di rifugiarsi all’interno della Chiesa e di invocare preghiere di protezione. Così, mentre i mori stavano per guadagnare l’ingresso nella cittadina vairanense, d’improvviso “comparve” innanzi a loro un vecchio dal bianco crine e dall’esile statura. Scendendo, andò incontro agli infedeli supplicando i loro generali di risparmiare queste case e le loro genti e di rinunciare, definitivamente, all’impresa di razziare questi territori. Il capo ordinò ai suoi di fermarsi e fu colpito dalla curiosità di conoscere chi aveva osato tanto sfidare, e non cedere alcun passo, all’avanzata del suoi uomini. Allora, risalì da solo fino alla chiesa ove trovò una folla di fedeli raccolta in preghiera; cercò invano di riconoscere il vecchio tra i presenti, fin quando il suo sguardo non incrociò il viso suadente della statua del Santo che “somigliava” tanto a quel vecchio. Il saraceno, allora, commosso da tanta sorpresa, si privò della sua enorme collana d’oro tempestata di gemme e la cinse al collo della statua in segno di rispetto e riverenza.
Lasciato il paese alle nostre spalle, si giunge alle estese pianure attraversando una fertile campagna disegnata da regolari campi coltivati a tabacco (uno dei principali prodotti della zona). Si sfiorano così le case di Vairano Scalo (145m) all’altezza della Taverna Catena, che alcuni storici locali ritengono l’esatto luogo ove avvenne (ottobre 1860) l’incontro tra il Re Sabaudo e Garibaldi per l’unificazione dell’Italia. Si attraversa la nazionale e ci si sposta verso occidente transitando, per piste e carraie, in Contrada Sarcioni (178m) lungo un tratto della storica “Via Latina” caratterizzata (e facilmente riconoscibile) dagli enormi basoli squadrati tipici delle strade dell’Urbe, ove la sterrata (193m), che attraversa ondeggianti distese di granturco, viene costellata da basse fustaie e da un ricco sottobosco (roveti) che offre gustosi frutti e diverse qualità di bacche (more, lamponi, celsi, ecc.). Si attraversano, poi, le aie e le masserie di Contrada Parlari (202m) ove si aprono estese vedute sulle immense praterie smaltate dai più vaghi fiori spontanei che si alternano a campi coperti di grano, granone, lino, canapa e ortaggi, fino ad imboccare una di quelle caratteristiche strade che determinano il paesaggio di questi territori d’origine vulcanica: le “Cupe”, sterrate che penetrano tra alti muraglioni in tufo circondati dal fitto verde della boscaglia i cui alberi colossali ergono al cielo le loro maestose chiome e le cui frasche sembrano formare un autentico pergolato, molto gradevole durante la calda stagione. Lo stradello attraversa una campagna ricca di frutteti e campi coltivati con tratti, a volte, anche lastricati. Così, dopo aver superato la Masseria Vespasiano (227m), il regno delle “vrole” (le castagne che diverranno poi caldaroste) diventa il dominatore assoluto del bosco.
È settembre (la migliore stagione per poter effettuare questo itinerario), e nel bosco gli uomini sono intenti alla cura e alla pulizia delle sterpaglie che, cresciute durante l’anno, avvinghiano come un tappeto tutto il sottobosco. Queste operazioni si rendono necessarie perché tra poco inizia la caduta dei ricci cui seguirà la raccolta delle castagne; ed ecco, allora, incontrare lungo il cammino, uomini intenti a lavorare con attrezzi da taglio (motofalcetti, motoseghe, ecc.), a sfrondare per avere le basi degli alberi completamente pulite e libere dai cespugli per raccogliere meglio il frutto quando cade; mentre altri, con picchetti in ferro e reti plastificate, cingono le basi delle pendici che scorrono lungo i bordi della pista per permettere, così, ai ricci e alle castagne di cadere all’interno dei terreni di proprietà ed evitare che non vadano persi lungo le sterrate ed i sentieri una volta tutti questi lavori di pulizia e sistemazione venivano effettuati esclusivamente a mano. La produzione delle castagne, in questi territori, è stata (da secoli) sempre una delle principali risorse che, insieme alla raccolta dei funghi porcini e alla coltivazione di ortaggi (per sottaceti e sottoli), incide positivamente nell’economia della zona in cui prosperano le industrie conserviere.
Dopo il passaggio attraverso queste Cupe si sbuca tra le case di Marzano Appio (320m), abitato che si sviluppa lungo la strada principale. Il suo nucleo originario (denominato “Corrigia”) non era ubicato ove oggi è quello attuale. L’antico agglomerato, in epoca romana sorgeva più in basso nella pianura, nei pressi delle biforcazioni delle antiche vie “Latina” e “Patenarla”, un articolato sistema stradale che s’insinuava tra le pendici del Matese ed i dolci declivi del Roccamonfina, e dove esisteva anche un laghetto d’origine vulcanica indicato “Coree” (che sta, secondo una leggenda, per Cuore Reale). L’odierno borgo nacque in seguito al decadimento e all’abbandono del paese giù in pianura, ed assunse l’attuale nome dalla famiglia Marzano, signori che governarono le sorti della cittadina dalla caduta dell’Urbe Imperiale fino al 1464. Meritano una visita l’antico Castello (del XV secolo), situato in cima al Colle Terracorpo e da cui si gode, se il cielo è libero da foschie e la giornata è nitida, di un magnifico panorama verso sud, sull’Ager Campani (Terra di Lavoro), l’inconfondibile sagoma deI monte Somma-Vesuvio, il monte Falto e la catena montuosa che forma la penisola dei monti Lattari, la dorsale del Partenio e le prime propaggini dei Picentini.
Proseguendo fuori il paese si possono notare, prospicienti ai bordi della strada, alcuni particolari usci con gli archi in mattoni tufacei a sesto ribassato. Questi ambienti così racchiusi fungono da piccole cantine per mantenere al fresco le castagne dopo la raccolta.
E così, tralasciando sulla destra il bivio che conduce alla frazione di Caranci (463m), si prosegue fino ad incontrare, sempre sulla destra, la chiesetta (del ‘500) dedita al culto di S.Antuono. Sul retro della Cappellina, ora parte il tracciato di una pista (un’altra “Cupa”) abbastanza erta, che va ad incunearsi (tra pareti in tufo muschiate) nel folto dei castagneti, mantenendosi sempre (583m) lungo gli scoscesi profili di cresta. Praticamente stiamo ripercorrendo quello che era l’antichissimo tracciato pedonale (unica via) che metteva in collegamento la pianura con Marzano Appio fino al cratere del Roccamonfina prima che avvenisse la costruzione dell’odierna strada rotabile e di cui le donne e gli anziani, fino ai primi decenni di questo secolo, si servivano per recarsi su al mercato di Roccamonfina.
Tra aspri valloni, come quello dei Pozzilli che si apre giù in basso a destra, e verdeggianti foreste (536m) è possibile scrutare, oltre la fitta cortina boscosa, alcune particolari conformazioni rocciose (di sicura origine vulcanica) che si aprono a picco sul Rio delle Fosse, mentre più lontano ancora (verso settentrione) si stagliano le propaggini meridionali delle brulle dorsali delle Mainarde (nel Parco Nazionale d’Abruzzo). Ora la pista lentamente comincia a degradare fino a giungere (600m) alla base di quella verdeggiante piana che si apre ad anfiteatro nella boscosa caldera dell’antico vulcano di Roccamonfina. Il cratere, considerato il maggiore (per estensione) ed il più antico della Campania, presenta un diametro di quasi 20 km, elevandosi poco al di sopra dei mille metri, con la “piatta” sagoma del monte S.Croce (1006m).
Immortalato nella pubblicità di una famosa acqua minerale, questo vulcano somiglia, morfologicamente, al Somma-Vesuvio, sia per l’isolamento che per l’ampiezza; la sua ultima eruzione che si ricordi, e che fu descritta da Orazio, avvenne nel 269 a.C.
Bocca eruttiva spenta da millenni, ma col sottosuolo sempre in perpetuo tormento, il comprensorio è continuamente teatro di scosse telluriche locali; lungo le sue pendici, si aprono numerose sorgenti termo-minerali. Proprio di fronte a noi, tra le folte chiome dei castagneti, si staglia (765 m) l’imponente struttura del bianco Santuario di Maria SS. dei Lattani (del XV secolo) la cui invidiabile posizione, offre vedute panoramiche lungo tutta la fertile pianura del Volturno e, più oltre verso nord, fino alla mole calcarea del Milette (2005m), nel gruppo dei monti del Matese. Dalla base orientale del cratere di Roccamonfina (il monte S.Croce), ritorniamo indietro lungo la pista che attraversa i castagneti, compiendo una svolta (verso sinistra) intorno all’altura di monte Maria (636m) per poi tornare nuovamente nella boscaglia, giù per una lunghissima discesa che va a sbucare lungo la strada Marzano-Roccamonfina. Da qui, si risale per alcune decine di metri fino ad imboccare (sulla sinistra) la traccia di un sentiero che scende, degradando, presso il Guado della Mela (379m). Si attraversa il fitto vallone, circondato da una rigogliosa vegetazione, e poi si risale (430m) penetrando nei castagneti di Maierano raggiungendo, infine, le prime case di borgata Terracorpo in Marzano Appio, e uscendo definitivamente sulla rotabile (389m). Da qui si prosegue lungo la strada che, per un lunghissime rettilineo in discesa, transitando accanto alla graziosa chiesetta della Madonna di Costantinopoli (193m) dal particolare campanile a forma di “cipolla”, riconduce al punto di partenza, giù verso la pianura, ove ha termine questo incantevole itinerario lungo le boscose propaggini dei fertili territori di questa “fetta” di Campania così splendidamente bella … e ancora così poco conosciuta.