Nove escursionisti morti sugli Urali: come la scienza ha risolto il caso
Un trekking invernale sugli Urali si trasforma in una delle tragedie più enigmatiche del Novecento. Dopo decenni di silenzi e teorie, una spiegazione scientifica ha finalmente fatto luce su quanto accaduto.
Nel 1959 un gruppo di giovani escursionisti esperti partì per un lungo invernale trekking sui monti Urali, in Siberia, senza fare ritorno.
Per oltre sessant’anni la loromorte è rimasta avvolta nel mistero, alimentata da silenzi delle autorità che hanno contribuito a far nascere ipotesi improbabili.
Solo recentemente la scienza è riuscita a ricostruire, passo dopo passo, cosa accadde davvero in quelle montagne.
Un trekking invernale sugli Urali
Nel 1959 un gruppo di studenti del politecnico degli Urali, accompagnati da un professore, si mise in cammino per un’escursione invernale di nove giorni e circa duecento miglia.
L’obiettivo era raggiungere la cima della Góra Otorten, una montagna isolata degli Urali settentrionali, in Siberia.
Una foto del gruppo di studenti – Archivio
Gli escursionisti avanzavano con gli sci ai piedi, in un ambiente estremo dove, in quel periodo dell’anno, la neve era abbondante e il vento costante.
Dopo la prima giornata di marcia montarono le tende su un altopiano nei pressi di una vetta nota come “Montagna Morta”.
Dei dieci partecipanti, solo Yuri Yudin sopravvisse: il ragazzo infatti si ammalò nei primi giorni del viaggio e fu costretto a tornare indietro, una decisione che gli salvò la vita.
La notte della tragedia
Nella notte del 27 e il 28 gennaio 1959 l’intero gruppo di ragazzi perse la vita.
Nei giorni successivi, una missione di soccorso raggiunse l’area e si trovò di fronte a uno scenario sconcertante: una tenda distrutta e un solo corpo con gravi traumi. Non c’era traccia del resto del gruppo.
Solo settimane dopo, con il parziale scioglimento delle nevi, una seconda spedizione riuscì a individuare anche gli altri corpi. Il mistero però, anziché chiarirsi, si fece ancora più fitto.
Infatti i corpi di gran parte dei ragazzi furono trovati quasi completamente nudi e la maggior parte di loro era priva di ogni segno di trauma o di un attacco di qualche animale: erano tutti deceduti per assideramento.
Altri presentavano lesioni compatibili con urti violenti, come se fossero stati colpiti da corpi contundenti. Eppure, sul posto non c’erano segni evidenti di valanghe né tracce di animali.
Inoltre, il luogo del ritrovamento, era un’area quasi pianeggiante e lontana da vette o pendii dai quali potesse staccarsi un blocco di neve o ghiaccio.
Silenzi ufficiali e ipotesi fantasiose
Le autorità sovietiche decisero di archiviare rapidamente il caso per non alimentare congetture da parte dell’opinione pubblica e attribuendo la tragedia a una “possibile valanga”.
Nonostante le pressioni delle famiglie delle vittime, che chiesero a gran voce di fare chiarezza sulle cause di quella tragedia, le indagini furono chiuse e la vicenda cadde in un lungo silenzio.
Proprio questa assenza di spiegazioni verificabili alimentò, negli anni, le teorie più disparate: attacchi extraterrestri, operazioni militari segrete ci fu perfino chi ipotizzò l’attacco di uno Yeti.
La tragedia del passo Dyatlov divenne uno dei misteri più discussi della storia dell’alpinismo e della montagna.
Il ritorno dell’interesse e nuove ricerche
Nel 2014 la storia tornò all’attenzione pubblica grazie al regista americano Donnie Eichar, che decise di fare alcune ricerche per realizzare un film sulla vicenda.
Per oltre quattro anni studiò i documenti ufficiali e ripercorse personalmente l’itinerario che il gruppo di studenti percorse tra le montagne degli Urali fino al passo che oggi porta il nome del capo spedizione.
Le sue ricerche riportarono al centro dell’attenzione l’ipotesi della valanga che, nonostante le particolari condizioni degli eventi, risultava essere l’ipotesi più plausibile.
Il lavoro e le ricerce del regista attirò l’interesse di due scienziati svizzeri: Johan Gaume, dell’École Polytechnique Fédérale de Lausanne, e Alexander Puzrin, del Politecnico di Zurigo.
La spiegazione scientifica
I due ricercatori analizzarono le condizioni del terreno, della neve e del vento presenti al momento della tragedia, pubblicando i risultati sulla rivista Nature.
L’obiettivo era capire come una valanga potesse staccarsi su pendii relativamente dolci, con una pendenza inferiore ai 30 gradi.
Grazie a una simulazione realizzata con il supporto di uno studio di animazione che aveva collaborato al film Frozen, ricrearono un modello realistico dell’incidente.
L’animazione diede la possibilità di ricreare le condizioni ambientali e metereologiche che c’erano al momento dei fatti.
Emerse che le condizioni erano ideali per una cosiddetta valanga a lastre: forti venti, accumuli irregolari di neve compatta e una pendenza sufficiente a innescare il distacco.
In questi casi, grandi lastre di neve e ghiaccio scivolano a valle con una quantità di materiale relativamente limitata, spiegando perché i soccorritori non avessero trovato i segni tipici di una valanga classica.
Traumi, ipotermia e spoliazione
Per comprendere le lesioni riportate dalle vittime, gli studiosi si rivolsero al centro di ricerca e sviluppo della General Motors, dove vengono effettuati test di sicurezza con manichini che simulano il corpo umano.
Le simulazioni dimostrarono che lastre compatte di neve, anche in movimento a velocità non elevate, possono provocare gravi traumi interni.
Rimaneva però da spiegare perché alcuni escursionisti si fossero spogliati in mezzo alla neve.
Medici e biologi chiarirono che si trattava di un fenomeno noto come paradoxical undressing, un fenomeno legato all’ipotermia.
Quando il corpo perde calore rapidamente, può insorgere uno stato di confusione mentale che porta a percepire una falsa sensazione di caldo, inducendo la vittima a togliersi i vestiti.
Una verità attesa per decenni
Dopo oltre sessant’anni, grazie alla convergenza di ricerche indipendenti e all’applicazione del metodo scientifico, è stato possibile ricostruire in modo coerente quanto accadde sul passo Dyatlov.
Una spiegazione che ha restituito alle famiglie delle vittime almeno una parte della verità che per decenni era stata loro negata.
In memoria di quei giovani escursionisti è stata istituita una fondazione benefica e realizzato un monumento nel cimitero di Mihaylovskoe, a testimonianza di una tragedia che continua a ricordarci quanto la montagna, soprattutto in inverno, richieda rispetto, preparazione e consapevolezza.