I casoni di Marcésina: dove le lamiere parlano al vento

18 marzo 2020 - 16:44

Non c’è neve sui monti, la bianca tarda ad arrivare e così il freddo. Tu parti, ti dirigi verso il Nord, sali verso l’Altopiano e lasci le case di Enego aggrappatea quella scarpata rivolta al sole. Ora il grigio è quasi un ricordo che fa da compagno a quelli di sotto. Qui la luce sembra avere il segreto della vita e il calore ragione e senso per giungervi.

Lasci la vecchietta alla ripida scalinata e alla sua preghiera, vai sulle strade insidiose per un velo sottile di ghiaccio. Vuote si spostano lasciandoti passare. Tu vai, le ruote ti portano e tra una curva e l’altra scorri sinuoso come un serpente. Guadagni quota tra le fronde di alberi spogli e pini brinati. Poi si aprono il cielo, il giorno e gli occhi; il paesaggio suggestivo ti conduce in una dimensione che non potevi immaginare e ti lasci trasportare. Vai, entri nella Piana di Marcésina e davanti ad un gruppetto di vecchi casoni in legno e con i tetti in lamiera, (tu) ti fermi.

Davanti a quelle antiche e spartane abitazioni di boscaioli, realizzate col sistema blockbau, a tronchi sovrapposti a castello e bloccati per incastro, un tempo col tetto in scandole di legno, poi sostituito da lamiere, ti senti come perso, proiettato in una altro Paese, ad un’altra latitudine: ti par d’essere in Scandinavia o nella steppa siberiana. Eppure sei nelle Prealpi Vicentine, sull’Altopiano dei Sette Comuni, non hai preso nessun aereo, non stai sognando o guardando un film, sei lì, davanti a delle antiche e cadenti abitazioni in legno e lamiera sparse nel giallo ocra dell’erba secca.

Per un attimo i rimandi di tante immagini si fanno memoria e speculare parallelo con ciò che hai di fronte. Un paesaggio western, una fiaba russa, un villaggio remoto, sperduto, dimenticato, abbandonato da tempo. Se lo circoscrivi al perimetro in cui si trova, tagliato a metà da una strada che scorre tra pascoli, ti sembra di essere entrato in un altro mondo e in un tempo lontano. Quello che s’insinua subito è lo stupore, la meraviglia, l’incredulità. Qualcosa d’inaspettato colora la tua giornata e accende la curiosità. Se avevi un’altra meta è già dimenticata. Ora che ti trovi qui, dove le lamiere che fanno da tetto gocciolano la notte e sibilano parole, tu devi fermarti ad ascoltare.

I volti dell’altopiano

Situata a nord-est dell’Altopiano dei Sette Comuni, tra i 1300 e i 1400 metri di altitudine, la Piana di Marcésina, è una grande distesa di pascoli accerchiata da foreste di abete rosso che ricadono nelle province di Vicenza e Trento. Grazie alla sua forma a catino la piana favorisce i depositi delle acque piovane che formano pozze e torbiere nelle quali vivono specie di fiori rari come ad esempio la Drosera rotundifolia. Proprio a causa di questa caratteristica conformazione qui si ha un’inversione termica notevole e d’inverno, col ristagno di aria fredda e densa, si arrivano a toccare temperature molte basse, come quella riscontrata nel 2005 di meno 35 gradi.

Marcésina è sempre stata sinonimo di pascoli abbondanti ed è per questo che fin dall’antichità i montanari dei Sette Comuni, alcuni di origine cimbra che si distinguevano per un idioma di origine germanica, l’hanno gelosamente custodita per i propri bovini e quando poi i pastori della Valsugana la contesero aspramente, posero una strenua difesa. Nel 1750 dovettero intervenire il Doge Pietro Grimani e l’imperatrice Maria Teresa d’Austria, rispettivamente rappresentanti della Repubblica di Venezia e del Regno Asburgico, per mettere fine alla controversia stabilendo un confine tra Veneto e Trentino. A testimoniarlo ancora oggi ci sono più di trenta cippi e seguendo il Sentiero dei cippi si giunge ai Castelloni di San Marco, dove si snoda un labirinto caratterizzato da piccoli canyon scavati nella roccia che i soldati italiani hanno reso percorribili e utilizzato durante il conflitto del 1915-18.

Passeggiando sulla piana e guardando verso nord-ovest si possono notare delle cime, da questo versante poco rilevanti, che hanno fatto da sfondo e teatro alla Prima Guerra Mondiale e alla Resistenza Vicentina nella Seconda: Cima Portule 2308 m, Cima Dodici 2336 m, Cima Undici 2228 m, Cima Dieci 2215 m, Monte Ortigara 2106 m, Cima della Caldera 2124 m. Più a est svetta invece Cima d’Asta, la montagna più alta della catena dei Lagorai.

D’estate la piana è punteggiata da centinaia di vacche di razza Burlina che pascolano beate sotto il sole scrollando i campanacci e nelle malghe d’alpeggio, oltre al burro, si produce uno dei formaggi Asiago d.o.p. migliori. È in questa stagione che l’altopiano perde il suo fascino e la sua anima. Pure i casoni, per buona parte dell’anno chiusi, lasciati all’ingiuria del tempo, ritrovano vita: qualche fiore abbellisce un balcone, i proprietari ci portano la famiglia, gli amici per trascorrervi una giornata o una settimana di relax, i bambini giocano, i cani abbaiano, i grandi si dilettano in grigliate.

Specie nei fine settimana l’altipiano è tutto un via vai di auto e moto, un brulicare di gitanti, quadrupedi al pascolo, biciclette, corridori, escursionisti, e nei mesi invernali, quando la neve trasforma il paesaggio, quasi da renderlo irriconoscibile, ancora uomini, sci ai piedi, a scorrere, più silenziosi, lungo le piste da fondo. È solo nelle stagione morta, a fine autunno, che la piana sembra trovare la pace e la quiete che merita; nel frangente di tempo che anticipa la neve e prende distanza da quegli spari che hanno rimbombato dai roccoli ricordando trincee e sangue umano versato forse per niente. Allora era un confine, una terra, una bandiera, una patria, una guerra senza vincitori né vinti, oggi solo perdenti, attirati con altri uccelli da richiamo su rami di sorbo finto e poi fucilati al muro di un pratica fuori tempo in un’area S.I.C.

Invece in inverno la piana cambia volto. Tutto è bianco e coperto da uno spesso manto di neve che sembra ovatta caduta dal cielo. La terra riposa e ogni forma di vita si ferma, rallenta. Il paesaggio trasformato ha un altro respiro e i casoni, sepolti e irriconoscibili, perdono il loro carattere e la forza di suggestionare i passanti sugli scii.

Ma se sei fortunato, in una di queste giornate di fine autunno, ti potresti trovare solo ad ascoltare il respiro e i battiti, a guardare i voli del gheppio a caccia di arvicole o magari intravedere un orso passare ancora una volta prima del letargo. Potresti girare per le erbe e le stoppie dorate della piana e sentirti improvvisamente felice di un silenzio remoto, intenso e così forte, da avere una sua voce. È allora, che tra le brezze di vento, le lamiere dei casoni iniziano a parlarti. Sono storie di legno, di ferro, di boscaioli, di vite dure e grame, storie che ritornano arrugginite, bagnate, col tarlo, bruciate, segnate, vecchie, ma nonostante tutto, ancora presenti e vive per quanti sanno ascoltare.

Mongolia di lamiere

È il vento a dirigere la piccola orchestra e a suonare gli strumenti di questo antico villaggio. È una sinfonia in do minore, per flauti, sibili, soffi, canti, ticchettii e vibrazioni metalliche. La ruggine fa colore e suono. Con la brina e le gocce che si sciolgono al sole è fremito rubato all’aria.

Dai camini di varia foggia non esce fumo, ma puoi immaginarti/vedere polente e caffè nero, mani robuste e nodose, facce abbronzate mezze sepolte dalla barba e ciglia cispose con occhi schietti che guardano il fuoco stanchi.

Sotto quel groviglio, quel mosaico, quel intarsio di lamiere trasformate, lavorate, disegnate e dipinte dall’acqua, il ferro ha fatto alleanza col legno. Sono questi due elementi che hanno sostenuto, protetto e avuto cura dei boscaioli. Sono loro, seppure cadenti, sbilenchi, piegati, consumati e rattoppati a conservare l’anima del luogo. Ogni singolo oggetto, ogni singola scheggia, tavola, lamiera, chiodo, ferro, pietra, arnese, cardine, porta, catena, maniglia, scala è una memoria di voci silenziose.

Pure le latrine, poste a debita distanza dagli abitati, conservano ricordo. Spartane e semplici, tavole di legno che perimetrano un metro quadro, alte poco più di una porta e con al centro una buca nel terreno. Bastavano allo scopo. Pure le gabbie per gli armenti e i serragli resistono addossati ad alcuni casoni. Cani, conigli, galline, maiali, pecore, gatti, topi, ghiri, oche, vacche, buoi, cavalli, muli, tutto un bestiario che s’intersecava e divideva gli spazi con i montanari.

 

Una falce appesa sottotetto, la lama arrugginita a confondersi con le lamiere, non sa più cosa sia il profumo dell’erba. L’arconcello, il bastone ricurvo con alle estremità due ganci, che appoggiato alle spalle permetteva di trasportare due secchi pieni d’acqua, è andato in pensione. Il ferro da cavallo appeso al suo fianco, non sente e sopporta più il peso della bestia e leggero brilla nel giorno.

Alcuni travi bruciati, neri ed incisi da un’infinità di rughe e solchi, rimandano a dei vecchi indolenti e curvi che si trascinano stanchi in vista del capolinea. I nodi acquisiscono bellezza quando il sole li illumina quasi a volerli penetrare e riscaldare. Certi ferri che l’acqua non ha ancora addomesticato, annodati danzano sospesi come due acrobati da circo affiatati che, stretti nei polsi, non si vogliono lasciare. Lui e lei sono uno, la vita e l’eternità che finisce quando uno dei due cade.

Anche i grigi tronchi che si sovrappongono sono maschi e femmine votati all’abbraccio, a una promessa d’amore. Solo impalpabili, labili, esili fili di ragnatela tentano di intrappolare o forse compromettere l’equilibrio, ma stanno lì, resistono come molluschi attaccati agli scogli. Alcuni tiranti a catena e a ferro doppiato a S, tengono in riga il tetto ondulato che in certi momenti, tante volte, il vento avrebbe voluto portarsi via. Pure i chiodi contribuiscono alla causa. Alleati alla storia del luogo più che agli uomini che se ne sono andati, rimangono come alfieri baldanzosi a fare da meridiana del tempo che passa.

Il verde turchese di certe travi ed infissi tenta invano concorrenza al grigio e al rosso fulvo. Un sorbo dell’ucellatore senza più bacche sostiene la schiena di un casone, e così dei tronchi sul lato di un altro che non sa più che santo chiamare per non soccombere agli anni.

Una slitta fa da museo all’aperto, delle scale a pioli rammentano i numeri delle scarpe che l’hanno consumate, un tris di tendine ricamate abbellisce l’interno di finestre che guardano al nord rispecchiando il sud di altre abitazioni. Fuori dalla porta, lasciato da sentinella, un vecchio boscaiolo scolpito nel legno, zappino in spalla, è lì, pronto a partire per il bosco, come ha sempre fatto. Invece il piccolo aeroplano segnavento che gira e si rigira, non trova la via del cielo.

Di una coppia di pannocchie appese all’esterno e visitate dai topi, solo i tutoli e le bratee che le avvolgevano. All’interno di una rimessa, tra sacchi e oggetti ammassati alla rinfusa, i pezzi di un grande carro smontato e ben conservato servito per il trasporto dei tronchi. Poco lontano una piccola baracca, forse adibita agli animali, seduta di fianco con le lamiere strusciate dalle erbe secche. Finita all’estremità di un filo sospeso, una foglia libra la sua ombra incerta in quel che fu suo padre e sua madre.

Legni crocifissi, ferri imprigionati, comignoli gelidi, lamiere ricurve, sovrapposte, mangiate e rosicchiate senza pietà, anelli di congiunzione, corde da spinta e tenuta, colpi d’ascia smussati per sostenere la vita come architravi le case. Suonando il tempo dei boschi le lamiere hanno fatto buchi e fori a forma di fiore, cuore e animale che preferisci. Piccoli ferri lavorati da mani sapienti penzolano inermi sui nervi delle tavole, altri, reticoli, spigolano la luce e l’aria in attesa che un volatile si posi a fargli compagnia.

Il villaggio del vuoto e del silenzio, la Mongolia di lamiere che scuote le stoppie nel blu freddo di un giorno autunnale, pare vagare immobile tra le nuvole e le staccionate che lo circoscrivono.

Con l’unico sollievo la giusta causa…

Poi in lontananza, dal folto del bosco, vedrai una fila di sagome e delle volute di tabacco che si confonderanno alle nebbie. Vedrai i boscaioli far ritorno con ai piedi le scarpe chiodate e in spalla i ferri del mestiere: i segoni, le asce, i cunei, le mazze, le accette, il zappino, le corde. Facce segnate, occhi stravolti dalla fatica, bocche cucite, il suono del passo a cadenzare la fine della giornata.

Seduti davanti a un piatto di minestra e un tozzo di pane, un bicchiere di rosso stinto nella destra e una sigaretta senza pretese tra le labbra. Le mani indurite, i palmi incalliti, le vene gonfie e tutti i muscoli del corpo ingrossati e plasmati come quelli del toro nel vivo della corrida. Munti dal lavoro, con l’unico sollievo la giusta causa: la famiglia, una moglie, una ragazza da sposare, un figlio da far crescere. Quanto basta a giustificare e far sopportare i giorni tra l’attrito di una lama che penetra nel cuore di un tronco ancora indomito e vivo. Poi una smorfia di sorriso, una coperta, il crepitio dell’ultimo fuoco, la notte, il freddo prima dell’alba.

Tu ascolterai i loro pensieri, le loro preoccupazioni, i loro sogni, terrai viva la memoria di ogni singola parola dei trucioli, della segatura, della brina, della cenere, delle gocce, della ruggine, della polvere, delle ragnatele, dell’erba, delle scorze, della pelle, delle squame, del sudore, delle piume, di quella terra. Alla fine, quando te ne andrai col cuore più leggero, ma con la testa piena di racconti e rimandi, mentre la poiana lancerà ancora una volta il suo lamentoso richiamo fatto di piiiiuu alternati, ti giungeranno pure i versi di una poetica, nostalgica frase che ancora oggi si può leggere in un targa appesa sul muro dell’Albergo Marcesina: “Ma ci saranno ancora degli innamorati che in una notte d’inverno si faranno trasportare su una slitta trainata da un generoso cavallo per la piana di Marcesina imbevuta di luce lunare? Se non ci fossero, come sarebbe triste il mondo…” Mario Rigoni Stern.

Una volta a casa questa favola potresti raccontarla a tuo figlio come regalo di Natale, lasciando a lui una memoria che noi non siamo stati in grado di custodire.

Metti una domenica di dicembre con la nebbia in pianura. La gente che al mattino si accinge a prendere d’assalto i centri commerciali per i regali di Natale, e che, se non fosse per questo motivo, ci andrebbero lo stesso… Tu non vuoi fare parte dell’orda che spinge, che si accalca, che s’azzuffa per un parcheggio, per un acquisto. Tu cerchi altro. Un po’ di tranquillità e d’introspezione, il silenzio, la natura, un orizzonte dove traguardare piccoli sogni, la cura del corpo attraverso un respiro profondo e un passo sul falso di foglie, erbe secche, rocce, rami e tronchi che profumano di bosco e altura

Testi e foto di Vittorino Mason

Testi e foto di Vittorino Mason