Dossier: quanto vale un inverno senza neve?

27 aprile 2020 - 13:51

La stagione delle vacanze invernali è in dirittura d’arrivo ed è arrivato il momento di tirare le somme. Il dato certo è che il fatturato del turismo della neve non dipendepiù solo e unicamente dallo sci e dagli impianti di risalita…

Mi scuso, innanzitutto, con tutti gli italiani del Centro-Sud che, in questi giorni (mentre scrivo questa opinione è il 10 gennaio 2017), si trovano sommersi da continue tormente di neve capaci di paralizzare la quotidianità creando immensi disagi e disservizi, e potrebbero sentirsi irrisi da un titolo simile.

Però la realtà è che, sull’arco alpino e in particolare nell’area orientale – Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia – sono almeno due mesi che, letteralmente, non passa una nuvola. E in queste pagine parliamo di turismo invernale e dell’industria dello sci.

I capricci della meteorologia

Un’eccezionale alta pressione stanziata alle latitudini settentrionali ha finora impedito qualunque precipitazione atmosferica, e, a qualunque quota in questa prima parte di inverno, questa porzione di Alpi, dal Bernina agli altipiani carsici che si affacciano sul Golfo di Trieste, si presenta in condizioni estive.

Più fortuna hanno avuto, quest’anno, i confini montuosi occidentali del Piemonte interessati a inizio dicembre da abbondanti precipitazioni nevose, che invece lo scorso anno erano totalmente mancate anche in quel settore, mettendo pesantemente in crisi l’industria turistica invernale. Quantomeno quella che afferisce al mercato dello sci da pista.

Quindi, per il secondo anno consecutivo, il turismo dello sci è stato salvato, almeno in parte, dall’utilizzo massiccio dell’innevamento artificiale. Che ha creato, nelle ultime stagioni, un solco ormai difficilmente colmabile tra i comprensori attrezzati (come quelli del Trentino Alto Adige) e che utilizzano piste da sci tracciate sopra i duemila metri, e le stazioni che invece non hanno saputo, o potuto, attrezzarsi con i “cannoni da neve”.

Nell’ultimo decennio, ci sono stati almeno cinque inverni determinati da grande siccità e carenza di precipitazioni sulle Alpi, perciò non si possono più considerare questi eventi come fatti casuali, ma come situazione consolidata. Pertanto l’utilizzo della neve prodotta artificialmente è ormai una necessità primaria per i comprensori sciistici.

Senza acqua non si scia!

È questa la prima, inesorabile, selezione a cui devono sottostare le località che vogliono avere garanzie di poter soddisfare le aspettative del turismo legato allo sci da pista.

La possibilità di accedere a grandi bacini – naturali o artificiali – per innevare i tracciati di discesa è indispensabile, e oggi l’impianto di innevamento è molto più importante di qualunque altra infrastruttura, compresi gli impianti di risalita, assolutamente inutili senza un adeguato innevamento programmato.

Ma l’acqua, come ben sappiamo, è un bene prezioso e non sempre facilmente disponibile, pertanto nel business plan di una stazione sciistica il reperimento dell’acqua e il costo del suo utilizzo deve essere la prima voce da verificare.

A basse quote non si scia!

La quota è la seconda criticità che deve essere valutata. Gli investimenti in nuovi impianti sciistici sulle Alpi oggi vengono considerati finanziabili solo se hanno la stazione di partenza sopra i 1400 metri di quota, ma recentemente la Svizzera ha portato questo limite a 1800 metri, a dimostrazione che, nelle previsioni dei prossimi anni, la quota “critica” per avere temperature utili allo sfruttamento dei cannoni sarà sempre più alta.

 

Ma serve fare nuovi impianti di risalita?

Assolutamente no, dal punto di vista della redditività. Da nessuna parte. Per un motivo molto semplice: il numero degli sciatori è in continua e costante diminuzione da almeno vent’anni!

Costruire nuovi impianti e infrastrutture per lo sci da pista, che hanno costi molto elevati, oggi è utile solamente ai grandi comprensori con l’obiettivo di MANTENERE la propria quota di mercato, e non certo per aumentarla.

Nell’immediato, un nuovo impianto o una nuova pista di discesa può anche attrarre sciatori curiosi di novità “rubandoli” a comprensori limitrofi, ma è sempre un fenomeno temporaneo.

La realizzazione di nuovi impianti e di nuove piste serve, in definitiva, per allettare la propria clientela turistica (oggi molto incline al “nomadismo”) spingendola a tornare in quella località.

I numeri dello sci nel mondo

I dati aggiornati forniti da International Report on Snow & Mountain Tourism, un documento che fornisce una prospettiva mondiale sullo sviluppo e sul peso economico del mercato dello sci paese per paese, coprendo il 99,8% del volume totale di questo mercato, iniziano con una premessa, evidenziando “una tendenza generale verso la stagnazione di questo mercato.

Anche la zona delle Alpi (che comprende Austria, Francia, Italia e Svizzera, quindi l’area di maggiore attrazione per il turismo invernale), pur continuando a beneficiare delle visite di clientela internazionale, registra una sistematica diminuzione del numero di sciatori.

Dall’inizio degli anni 2000, la misurazione annuale delle visite da parte degli sciatori ha dimostrato che questo calo non è solo legato alle condizioni meteorologiche e alla neve, o alle condizioni buone o cattive dell’economia.

Il problema è più importante e strutturale: dai dati è emerso che la popolazione di frequentatori della montagna sta crescendo, ma non il numero di sciatori e di visite per singolo sciatore. In parole semplici, ci sono sempre meno “nuovi sciatori” e anche chi viene considerato uno “sciatore affezionato” tende a diminuire il numero di visite e discese sulle piste.

I numeri dello sci in Italia

Lo stesso rapporto dedica un focus anche alla situazione italiana, evidenziando come siano presenti sulle nostre montagne alcuni comprensori sciistici molto dinamici – ad esempio il Super Ski Dolomiti che conta 450 impianti di risalita e 1200 km di piste – che offrono un alto livello di infrastrutture, di impianti di risalita e d’innevamento.

Tuttavia, il mercato italiano è formato da una moltitudine di piccoli operatori che, operando soltanto sul mercato locale, non sono in grado di attrarre in alcun modo nuova clientela esterna; valutando il trend in sempre maggior calo del numero di persone che si avvicinano allo sci e allo stesso tempo la riduzione delle visite per singolo sciatore, è evidente che questi piccoli operatori sono destinati a veder diminuire sistematicamente il proprio giro di affari.

L’industria italiana del turismo sciistico si mostra dunque piuttosto frammentata, basata principalmente su clienti nazionali e presenta il tasso più basso di partecipanti stranieri dei paesi alpini.

Il rapporto sull’Italia si conclude verificando che il numero di utenti complessivi ha continuato a diminuire, e la valutazione è che il nostro paese in questo settore ha un profilo di mercato maturo e non sono prevedibili crescite nel futuro.

Secondo questo studio, che offre dati numerici inoppugnabili, basati sulle vendite di attrezzatura, in nove anni il mercato dello sci in Italia si è dimezzato. Colpa della crisi, delle nuove discipline e della settimana bianca che diventa weekend…

Dal 2004, il mercato dello sci alpino è crollato del 50%: nella stagione 2004-2005 erano stati acquistati 398.000 paia di sci, dieci anni dopo il dato scende a 173.000. Stesso trend per scarponi, attacchi e tutti gli accessori afferenti a questa disciplina, che hanno fatto crollare il fatturato da 106 milioni di Euro di giro ad appena 52 milioni.

Com’è cambiato il turismo della montagna?

Alla luce di queste valutazioni, si potrebbe pensare che il turismo invernale montano sia in crisi… ma non è così, e per capirlo analizzeremo alcuni dati di importanti osservatori di settore, partendo da dati concreti su quanto vale oggi, in Europa, la galassia degli sport outdoor in montagna, che hanno come massima espressione, numerica ed economica, l’escursionismo.

Da almeno 15 anni (con una temporanea flessione, dovuta alla crisi globale, tra il 2008 e il 2011) il mercato degli sport legati al turismo nelle aree a spiccata vocazione ambientale vive una continua crescita che, dal 2012, sale con un trend annuo del 3%.

I dati delle vendite 2014 di articoli sportivi dedicati alle attività outdoor è di oltre dieci miliardi di Euro, dove le calzature fanno la parte del leone con un incremento del +5,5%, seguite dall’abbigliamento con una crescita del 2,5%. Il mercato europeo più grosso è la Germania (26%), seguita da Inghilterra/Irlanda (14%), Francia (12%), e Italia al quarto posto con 6%, ma in forte crescita c’è l’area Est con Russia al 6% in primo piano.

In Italia il turismo outdoor, in base ai dati pubblicati a ottobre 2015 dall’osservatorio BIT, inteso come viaggi e vacanze finalizzati a praticare attività sportive all’aria aperta, vale dieci milioni di viaggi all’anno, con un fatturato di oltre nove miliardi di Euro. In queste cifre, il turismo degli sport in montagna vale oltre il 60%.

È in crisi lo sci, NON la passione per la montagna!

Questo è l’altro, per alcuni aspetti stupefacente, dato che emerge dai numeri, asettici e inesorabili: diminuisce il numero dei praticanti dello sci in pista, ma cresce il numero dei frequentatori della montagna!

Le novità introdotte nel mercato delle attività sportivo-ricreative outdoor e montane hanno generato un cambiamento di abitudini.

Gli sciatori italiani si assestano oggi poco sotto ai 2 milioni di praticanti, a cui vanno aggiunti, come frequentatori delle piste di discesa, circa 500.000 snowboarder.

Ma oggi a fare tendenza sono le attività “free”… e a registrare una straordinaria impennata è lo scialpinismo che si assesta a circa 100.000 praticanti abituali, mentre il Freeride cresce con punte di 10.000 nuovi appassionati ogni anno.

Sciare in salita

Lo scialpinismo, che consiste nel salire percorsi innevati con le “pelli di foca” (strisce di materiale sintetico peloso che si applicano sotto la soletta degli sci e consentono di procedere in salita con gli attrezzi ai piedi senza scivolare all’indietro), senza l’ausilio di impianti di risalita, lontano dal caos delle piste, “annusando” le atmosfere più autentiche dell’ambiente montano anche attraverso la fatica del gesto fisico, sta crescendo. Le gite più classiche e comode sono frequentate da molte decine di persone ogni weekend.

Interessante la previsione di Reiner Gerstner, brand manager del gruppo Salewa/Oberalp, marchio leader nel mondo: “La quota dello scialpinismo sull’ammontare totale di chi va in montagna rappresenta oggi circa il 15% su scala mondiale, con oltre 3,1 milioni di paia di sci da alpinismo venduti ogni anno. Ma il dato più interessante è che si prevede, entro 5/7 anni, un incremento che porterà lo scialpinismo a superare il 50% del totale del mercato della neve.”

Già si intuiscono le avvisaglie di questa tendenza. A inizio stagione, sulle Dolomiti, alcune importanti stazioni hanno posticipato la battitura di alcune piste, dopo averle innevate artificialmente, lasciandole allo stato naturale per permettere a un piccolo esercito di scialpinisti di allenarsi praticando la loro attività preferita anche in assenza di precipitazioni nevose naturali.

Il “caso” Dobratsch

L’esempio più interessante di questa nuova attenzione per una disciplina considerata, fino a poco tempo fa, solo un “danno” per piste e impianti di risalita, è quello del Parco Naturale austriaco di Dobratsch, alle porte di Villach in Carinzia.

Solo qualche anno fa era una piccola stazione sciistica, troppo limitata per attirare l’interesse degli sciatori da pista, ormai catalizzati da grandi comprensori sciistici con decine di impianti e centinaia di chilometri di discese. Inevitabile la decisione di chiudere la stazione e smantellare gli impianti… ma a quel punto è accaduto il miracolo.

Abbandonato dai “pistaioli”, il panettone nevoso del Dobratsch è stato preso d’assalto da scialpinisti e freerider, che nei percorsi di salita e nei tracciati da discesa ritornati “selvatici” hanno trovato un terreno ideale per la loro attività.

Seguiti da escursionisti e ciaspolatori a caccia di emozioni. La dismissione degli impianti di risalita ha regalato al Dobratsch una seconda, e molto più florida, opportunità, perfettamente in linea con le aspettative di un turismo attento all’ambiente e alle sue preziose peculiarità.

Camminare d’inverno

Fino a qualche stagione fa, sfrecciando in discesa gli sciatori guardavano con un misto di fastidio, benevolenza e commiserazione quei bizzarri personaggi che, con le racchette da neve ai piedi, arrancavano sui bordi delle piste prima di imboccare uno dei tanti sentieri che si perdono nei boschi a lato dei tracciati sciistici.

Le “ciaspole” sembravano un inutile e stravagante tributo ad un passato che non può tornare, o anche un modo molto economico per godere dell’atmosfera montana da parte di chi non poteva permettersi i costi dello sci da discesa… quanto si sbagliavano!

Invece, la crescita in Italia del numero di appassionati di racchette da neve è costante da alcuni anni, e ha consentito al nostro paese, a livello europeo, di raggiungere Francia, Svizzera, e Paesi scandinavi per diffusione della pratica.

Nel concreto, i dati forniti dall’Osservatorio Skipass Panorama Turismo, elaborati da Jfc, raccontano il boom della ciaspola relativo agli ultimi cinque anni ma cominciato, di fatto, già nel 2008-2009. Nell’inverno 2010-2011 i praticanti erano 322mila, un dato superiore ma molto vicino a quello riguardante lo sci di fondo, con 310mila appassionati.

Da allora, in quattro anni la ciaspola è diventata il secondo attrezzo sportivo più utilizzato dagli italiani sulla neve, dietro soltanto agli sci da discesa; anche lo snowboard, infatti, dopo un’impennata nei primi anni Duemila, ha perso costantemente praticanti fino al dato dell’inverno 2014-2015: 488.000 snowboarder abituali, con un decremento complessivo del -17,3% dal 2011.

Contemporaneamente la ciaspola è passata dai 322.000 praticanti del 2011 ai 505.000 dello scorso inverno, facendo registrare un incremento del +56,8%. Risultando, in questo arco temporale, la disciplina singola che ha conosciuto lo sviluppo più significativo.

Sempre con riferimento ai dati dell’Osservatorio Skipass e relativi allo scorso inverno, la ciaspola rappresenta oggi il 13,6% dell’intero sistema sportivo sulla neve, con un mercato dell’attrezzo, in Italia, stabile e posizionato sulle 100.000 paia di ciaspole/anno, ed eventi, come la Ciaspolada della Val di Non, capaci di richiamare in un weekend fino a 10.000 persone che cercano atmosfere e ambienti montani lontano dagli impianti di risalita e dalle piste da sci.

È possibile un turismo montano economicamente sostenibile alternativo allo sci da pista? Il caso Val Maira

Alla luce dei dati attuali, la Val Maira rappresenta uno straordinario caso di intuizione turistica sostenibile in perfetto equilibrio con le nuove aspettative di un turismo attento all’ambiente naturale e attratto dalle sue prerogative.

Questa piccola valle occitana, arrampicata tra le impervie montagne del Piemonte occidentale, ha vissuto, per infinite generazioni, la difficile e severa esistenza legata alle poche “certezze” della montagna: freddo, isolamento, agricoltura di sussistenza e pastorizia di alpeggio.

Avendo tutte le caratteristiche negative che hanno portato allo spopolamento di gran parte delle valli alpine – una strada di accesso stretta e tortuosa che rende difficili i collegamenti con il fondovalle e “muore” in alta quota impedendo transiti abituali da una valle all’altra; una quota media delle frazioni elevata, sopra i 1500 metri di altitudine in alta valle; pendii irti e scoscesi con poca insolazione e ancor meno terreni “piani” idonei all’agricoltura.

La mancanza di un nucleo abitativo principale e un’infinità di piccole e piccolissime frazioni (spesso costituite da un unico nucleo familiare) difficili da collegare e una conseguente mancanza dei servizi anche primari – negli anni ‘50 del secolo scorso, in pochi anni, ha subito una migrazione pressoché totale della popolazione residente verso la pianura torinese, che rappresentava allora possibilità di lavoro e di miglioramento della propria condizione.

Per quattro decenni la Val Maira ha subito l’aggressione silenziosa della montagna, della neve, dell’abbandono. Poi, nei primi anni ‘90, qualcuno è tornato.

Ha rimesso in piedi le vecchie case di famiglia, in pietra e legno, immaginando che quella condizione così lontana dalle necessità del turismo industriale alpino – fatto di simulacri della città, grandi comprensori sciistici e divertimenti “balneari” a base di discoteche e shopping center – forse poteva intrigare qualche visionario alla ricerca di pace e solitudine.

Da quell’intuizione è nato un progetto che oggi si chiama Consorzio Turistico Valle Maira. Ma, a differenza di molte altre aree montane dove le esigenze del turismo industriale hanno portato allo stravolgimento delle caratteristiche e delle culture locali.

La Val Maira è ancora quella che i suoi abitanti lasciarono negli anni ‘50: una strada “impossibile” che si inerpica tra stretti valloni rocciosi; nessuna infrastruttura “industriale”, ma solo piccole frazioni di pietra e legno che però oggi espongono alle finestre vasi di fiori colorati e insegne che raccontano una cura dell’ospite di altri tempi: locanda, osteria, bed&breakfast…

Soprattutto, nessun impianto di risalita e nessuna pista da sci. I versanti della Val Maira sono ancora oggi come li vedevano con timore i pastori dei secoli andati, carichi di neve fino alle creste che sfiorano i 3000 metri.

Un autentico paradiso per gli appassionati di scialpinismo e ciaspolatori, che hanno fatto diventare questa sconosciuta valle piemontese un punto di riferimento internazionale per chi cerca una montagna ancora realmente autentica e non “addomesticata”.

I numeri della Val Maira

Il Consorzio, in continua crescita, attualmente associa una cinquantina di strutture turistiche principali – assimilabili alla categoria alberghiera Tre Stelle, con disponibilità da 5 a 20 camere, e sempre a conduzione “familiare” che permette di ottimizzare i costi – più una galassia di B&B, attività commerciali e artigianali.

Tutte rigorosamente caratterizzate da un indissolubile legame con la tradizione valligiana. Molti hanno infatti riattivato le antiche case mantenendo con rigore la tipologia edilizia basata sulla pietra locale e sul legno di larice.

La valle accoglie circa 80.000 turisti all’anno – 50.000 dal 1 giugno al 30 settembre e 30.000 nel periodo invernale da fine dicembre ad aprile – ma il dato straordinario, per i numeri del turismo attuale, è l’occupazione TOTALE delle strutture esistenti, con un rapporto domanda/offerta di 3 a 1.

Significa che una sola richiesta di alloggio su tre può essere accolta, e questo fa si che le prenotazioni, in Val Maira, spesso si fanno una stagione per l’altra. Nulla di più lontano dalla moda delle prenotazioni “last minute” che ormai caratterizzano la ricettività turistica industriale.

Tuttavia, gli operatori della Val Maira, da solidi e concreti montanari innamorati del loro territorio, non si fanno attrarre dalle chimere dello “sviluppo ad ogni costo”: “Cerchiamo di rimanere in equilibrio con la nostra montagna” mi racconta uno dei soci del Consorzio “e mantenendo le nostre strutture a conduzione familiare, senza farci attrarre dalla costruzione di nuovi edifici o dall’aumento delle possibilità ricettive delle nostre case, siamo certi di mantenere in corretto equilibrio il nostro lavoro con il nostro territorio.

Chi vuol venire a trascorrere un periodo di vacanza nella magnifica natura della nostra valle deve pensarci per tempo. Oggi (intervista raccolta a inizio dicembre 2016, n.d.a.) siamo già pieni fino alla metà di aprile, e molte delle prenotazioni sono state fatte già la scorsa stagione da clienti che sono stati qui e si sono trovati bene.”

Un altro dato stupefacente è la tipologia della clientela che frequenta la Val Maira, costituita da italiani solo per il 20% e nei periodi canonici di agosto e vacanze di Natale. L’80% è invece costituito da stranieri… e verrebbe facile pensare che, data la vicinanza, si tratti di francesi. Sbagliato!

“I francesi per noi sono una minoranza” mi conferma Fabrizio, gestore del Rifugio di Viviere, situato in una posizione idilliaca a 1770 metri di quota “e passano di qua, nelle loro escursioni di scialpinismo da rifugio a rifugio, solo verso fine stagione, da metà marzo in poi. Si fermano una notte e poi ripartono, non sono clienti particolarmente interessanti.

Quelli che invece si fermano qui per weekend e settimane intere sono al 60% di lingua tedesca – svizzeri, austriaci e appassionati di montagna provenienti dalla Germania – 10% da Nordeuropa e Inghilterra, e un 30% di olandesi, soprattutto d’estate.”

Sono dati che devono far pensare: arrivare fin qui dall’Inghilterra, dalla Norvegia o dalla Germania, è un vero e proprio “viaggio”, perciò cosa spinge queste persone (parliamo di circa 65.000 turisti/anno e non poche decine di “assatanati” di solitudine e natura selvaggia) ad affrontare migliaia di chilometri per raggiungere una sperduta vallata delle Alpi Piemontesi, priva delle offerte – in termini di strutture e servizi – considerate “indispensabili” dai canoni del turismo canonico?

Credo il richiamo di una Natura ancora integra, e la possibilità di viverla a misura d’uomo, con le piccole accortezze dell’ospitalità tipica dei montanari ma senza la maggior parte dei bisogni, spesso inutili, che ci portiamo addosso nella quotidianità. Un esempio da seguire? Personalmente ne sono certo.

Ma mi interessa anche analizzare alcuni dati emersi dalle mie chiacchierate con gli imprenditori locali. Innanzitutto il dato relativo alla presenza di clientela olandese, che si focalizza nel rapporto con DUE (due, non duecento o duemila) Tour Operator di quel paese.

In un’epoca in cui, secondo le “leggi” del turismo industriale sembra indispensabile andare a prendersi i clienti uno per uno, spesso rubandoli ai competitors, facendo operazioni capillari di promozione in ogni parte del mondo, stupisce che un prodotto turistico apparentemente di nicchia come la vacanza montana in una valle che offre la sua Natura e l’accoglienza sicuramente calorosa di rifugi e B&B, ma nessuno dei “must” apparentemente obbligatori per posizionarsi sul mercato mondiale del turismo, attiri 15/20.000 persone da un paese molto lontano dal turismo alpino.

Bisogna, forse, ripensare a quello che le persone vorrebbero realmente per la propria vacanza? Probabilmente si, a guardare i dati della Val Maira. Che, con un pernottamento medio intorno ai 50/60 Euro e un pranzo tipico con prodotti locali a 30 Euro, e un’occupazione delle strutture di circa 200 giorni all’anno, produce un indotto economico stimabile tra i 7 e 9 milioni di Euro all’anno.

Ma c’è un ultima, piccola sottolineatura che mi piace evidenziare: “Sai da dove viene gran parte delle Guide Alpine che frequenta la Val Maira, soprattutto d’inverno?” mi “confessa” Fabrizio.

“Da Chamonix e Courmayeur… loro, che hanno a portata di mano il Re delle Alpi, il Monte Bianco, spesso portano i loro clienti qui da noi, per fargli respirare le atmosfere della montagna autentica…”

C’è n’è abbastanza per cominciare a ripensare a quello che potrebbe essere un turismo montano capace di eccitare la fantasia e le aspettative di molti che ormai cercano di fuggire dagli stereotipi ormai stantii del “progresso ad ogni costo”.

Si può fare “cultura” in montagna? Il caso Artesella

La Val di Sella è una piccolissima ferita naturale che, partendo dalla destra orografica della Valsugana all’altezza di Borgo Valsugana, si incunea sotto i bastioni rocciosi del gruppo calcareo della Cima XII, spartiacque tra l’Altipiano dei Sette Comuni, in Veneto, e il fondovalle trentino.

Una valle che nulla possiede al di fuori della sua natura rigogliosa, fatta di faggete, pascoli e boschi di conifere. Abitata non stabilmente e solo d’estate da villeggianti che possiedono seconde case in loco. Priva di qualunque infrastruttura ricettiva se si escludono un paio di locali che aprono solo poche settimane in luglio e agosto.

Come fa, allora, questa valle, a richiamare oltre 85.000 turisti “paganti” all’anno, di cui oltre il 30% provenienti da vari paesi esteri? Il termine “paganti” non è casuale, perchè Artesella è uno straordinario museo all’aperto di arte-natura, che richiama appassionati da tutto il mondo. Solo per una comparazione con il reale valore di questo progetto culturale, il Mart di Rovereto, uno dei maggiori musei europei di arte moderna, chiude quest’anno con 120.000 presenze.

Artesella ha avuto, nel decennio 2006/2016, un incremento economico del 700% e una ricaduta sul territorio circostante (Borgo Valsugana e comuni limitrofi) di oltre 5 milioni/anno in termini di hospitality, ristorazione e acquisti di prodotti locali.

Ma in termini di promozione territoriale, il valore di Artesella è incalcolabile, poichè, senza alcun investimento di promozione turistica, le sue suggestioni compaiono stabilmente nelle riviste e nei media di tutto il mondo che si occupano di arte e di aree ad alta vocazione naturalistica e ambientale. E sta trasformando una valle a indirizzo prettamente industriale e commerciale come la Valsugana in un territorio appetibile anche per il mercato del turismo.

Conclusioni

Lontana da me la tentazione di demonizzare il turismo industriale della neve, che rappresenta un motore indispensabile per molte aree alpine e appenniniche. Intere valli vivono di sci, impianti di risalita e infrastrutture che sicuramente rappresentano una voce importante anche nell’economia turistica nazionale.

Senza dubbio sono stati fatti, in passato, molti errori e molte aggressioni a un territorio ostile ma delicato qual è l’ecosistema montano, però oggi è inutile recriminare su quello che è stato perso in termini di ambiente.

Le stazioni invernali esistono e sono un volano indispensabile per il mantenimento di intere comunità ed economie locali. Io stesso, come maestro di sci, contribuisco a valorizzare questa magnifica attività all’aria aperta e ne derivo buona parte delle mie entrate.

Pur valutando con attenzione i dati dell’osservatorio mondiale sul turismo dello sci, che indicano una continua decrescita dell’utenza a livello planetario, mi auguro che gli appassionati continuino a frequentare i nostri comprensori sciistici già esistenti e ormai “ottimizzati” per garantire una vacanza invernale sugli sci.

Quello che però mi preme sottolineare è l’assoluta incoerenza, alla luce dei dati attuali, che si riscontra in qualunque progetto di sviluppo turistico focalizzato, oggi, sulla creazione di nuovi impianti di risalita e nuove piste da sci.

Come evidenziato, non esiste alcun fattore che possa anche solo far ipotizzare un incremento di entrate economiche conseguenti alla realizzazione di tali infrastrutture, che d’altro canto hanno costi di attuazione sempre più insostenibili, anche tralasciando l’immenso impatto e valore negativo sull’ambiente.

E sicuramente, almeno nel medio periodo, le condizioni metereologiche indicano come sia sempre più difficile – per temperature e approvvigionamento idrico – garantire una partenza corretta, a fine novembre, delle attività sciatorie in pista.

Ormai solo i grandi comprensori alpini, che si sviluppano in gran parte oltre i 2000 metri di quota, possono sostenere i costi dell’innevamento artificiale, avendo già da tempo ammortizzato i costi di realizzazione degli stessi e potendo, grazie all’utilizzo dei cannoni da neve, attirare la propria clientela offrendo la garanzia di piste ben mantenute.

E come si evince dai dati economici di questi megacomprensori, gli investimenti in infrastrutture per lo sci alpino servono, nel migliore dei casi, a mantenere il giro di affari ma sicuramente non ad aumentarlo.

Esempi sempre più concreti e numeri economici inoppugnabili dimostrano, però, che l’ambiente montano e le attività sportivo-ricreative in armonia con la natura e nella natura sono nei desideri di un numero sempre crescente di estimatori, ed è possibile perciò un altro sviluppo dell’offerta turistica legata alla montagna, che metta in primo piano non la trasformazione industriale delle aree valligiane ma, al contrario, tutti gli elementi che da sempre caratterizzano l’ambiente montano: al primo posto la natura e tutte le sue valenze e suggestioni, contornata dal recupero delle tradizioni e delle specificità culturali delle civiltà rurali montane.

Ma per fare questo bisogna dimenticare di essere semplicemente “commercianti” del turismo interessati esclusivamente a quanto rimane in cassa, e, di nuovo, innamorarsi delle proprie radici, trasformandole in un valore concreto e inalienabile, e diventare promotori e propositori di un nuovo, ancorché vecchissimo, modo di approcciarsi alla vacanza, che oggi ha come “must” fondanti i concetti di wellness (star bene), relax, salute ed emozioni genuine, meglio se legate a storie e tradizioni antiche.

Tutte prerogative che l’ambiente montano possiede in abbondanza!

Testo e foto di Michele Dalla Palma