L’ARCA di Remigio, una vita per gli animali

18 marzo 2020 - 12:26

Remigio Luciano è il responsabile del Centro di Recupero Animali Selvatici di Bernezzo, un centro situato in provincia di Cuneo.

È del 1937 e fin da piccolo si è confrontatocon il regno animale, in tutte le sue forme. Nato a Tetto Cavallo, un rione situato dopo quella che era la vecchia discarica di Cuneo – area molto abitata grazie alla buona esposizione al sole – ricorda che suo nonno era molto contento di quel luogo perché la loro casa richiedeva poco combustibile e, di conseguenza, poco lavoro per scaldarsi.

Quando durante la Seconda Guerra Mondiale sono iniziati i bombardamenti su Cuneo la madre lo ha trasferito, insieme alla sorella maggiore, a Robilante, nella frazione di Rascas sotto Madonna delle Piaggie. Qui da un suo prozio ha imparato il rispetto per la natura, ha iniziato a riconoscere le tracce lasciate dagli animali e ad aspettare i lenti ritmi della vita selvatica. Finita la guerra si è trasferito con la famiglia a Torino dove ha iniziato, nei momenti lasciati liberi dagli studi da geometra, a frequentare il museo di scienze naturali e la ditta Molinar, un’azienda importatrice di animali esotici che rivendeva agli zoo italiani. Nel 1971 è diventato il gestore dello zoo comunale di Cuneo che ha curato fino al 1984, poi si è trasferito, con alcuni dei suoi animali, nel terreno privato di Bernezzo fondando un piccolo zoo che nel 2001 è diventato il centro di recupero animali selvatici, aperto ventiquattro ore su ventiquattro.

In queste pagine impariamo a conoscere meglio questo personaggio che ha dedicato la sua vita alla conoscenza della natura attraverso l’intervista raccolta da Michela Del Torchio.

A TU PER TU CON REMIGIO

Per descrivere dettagliatamente la sua vita ci sarebbe bisogno di un libro che inizia con delle foto in bianco e nero e finisce con l’indirizzo del sito internet del suo centro, una bella immagine del suo percorso professionale e della sua lunga esperienza personale. Quando parla si comprende il significato del termine “appassionato di animali” e si vede la tranquillità di una persona che ha compreso il suo cammino, ne ha accettato le difficoltà e ne sta amando ogni passo. Le sue risposte, anche a delle domande scontate, hanno sempre aperto delle grandi rivelazioni sulla vita, sulla frenesia dei nostri giorni e su tutto quello che abbiamo perso negli anni, soprattutto in riferimento al meraviglioso rapporto con l’ambiente che ci circonda.

Quando è nata la passione per gli animali

Da bambino, da subito. Abitavo a Tetto Cavallo, sotto l’attuale Viale degli Angeli, era un luogo con molte famiglie perché era ben esposto al sole, questo era vantaggioso nelle fredde giornate invernali, mio nonno raramente accendeva la stufa in casa.

Eravamo tanti ragazzi, di ogni età, e ci riunivano in bande. Le madri lasciavano andare anche noi più piccolini un po’ per dare responsabilità ai ragazzi più grandi, un po’ per avere del tempo da dedicare al lavoro o alla casa. Inutile dire che i ragazzi difficilmente si prendevano cura di noi piccoli e spesso finivamo nei guai. Si andava tutti insieme al torrente Gesso a cercare i nidi degli uccelli, a vedere i serpenti o la riproduzione dei rospi, ce ne erano tantissimi. Avevamo solo quello da fare, passavamo molte ore a guardare la natura, quello che succedeva: ci piaceva osservare le lucertole che catturavano le mosche, o vedere come il ragno mangiava quelle che noi gli mettevamo nella ragnatela.

Il contatto con l’ambiente, con gli animali erano il nostro passatempo, non c’erano altre distrazioni. I più grandi si divertivano a braccare gli uccelli, noi più giovani li invidiavamo perché potevamo prendere solo cose più piccole, come i grilli o le lucciole. Facevamo delle gabbie per i grilli con i tappi di sughero e gli spilli, li tenevamo con la speranza che di notte cantassero. Quelli erano tempi puliti, si viveva così, alla giornata, era sempre un’avventura, non c’era nulla di programmato o di frenetico da fare.

La nostra maestra era la campagna, c’insegnava l’osservazione della vita. È anche vero che per divertirci diventavamo spesso estremamente cruenti, come quando prendevamo le lucertole un po’ tramortite e le mettevamo nei formicai per vedere come venivano aggredite. Se lo fai adesso un bambino rimane colpito, oggi la gente si stupisce se vede un cane legato ad una catena, per noi era la normalità. Nonostante questo ho sempre avuto una certa sensibilità verso gli animali: quando andavamo a caccia di nidi io e un mio amico lasciavamo sempre qualche pulcino alla madre, per non farla soffrire troppo. Era indubbiamente un atteggiamento rischioso in un gruppo di giovani che caccia: sottrarre piccoli dai nidi spinge la femmina a farne altri, in questo modo avremmo sempre avuto di che sfamarci. A me, però, dispiaceva.

Quando trovavo dei luoghi di nidificazione non lo dicevo mai ai più grandi e prendevo solo lo stretto necessario. Non si tratta dell’educazione ricevuta dai miei genitori, nessuno mi ha mai spiegato di non fare del male agli animali. È un istinto che avevo dentro di me. Da sempre provo un forte dolore quando vedo maltrattare un animale.

 L’insegnamento più grande ricevuto da un animale

Di insegnamenti ne ho ricevuti tanti, più o meno importanti, anzi tantissimi. Quello che però mi è rimasto in fondo al cuore è l’attaccamento alla vita: un animale crede nella vita, non se la rovina come facciamo noi fumando o bevendo o facendo un eccesso di sport. L’animale fa il minimo indispensabile per la sopravvivenza, sa risparmiare perché sa che al momento opportuno deve avere tutte le forze necessarie per sopravvivere.

Gli animali ragionano per la sopravvivenza, tutto quello che fanno lo fanno con questo spirito, con questo rispetto per la vita, noi no. Hanno un enorme voglia di vivere, ho visto degli animali con delle lesioni gravissime che nonostante tutto, senza aiuti di nessun tipo, sono stati in grado di combattere per la loro sopravvivenza. Ricordo, quando facevo il bracconiere e andavo a prendere le volpi, alcuni esemplari con delle amputazioni causate da vecchie tagliole. Nonostante tutto erano ancora in buono stato di salute, questo vuol dire che cacciavano e si davano da fare: con una gamba amputata avevano ancora la forza per cacciare.

Ho imparato molto anche dagli esseri umani, ho sempre trovato delle persone molto disponibili a tramandarmi il loro sapere, le loro conoscenze e questo ha fatto di me l’uomo che sono oggi: non mi sono inventato nulla, tutto quello che so mi è stato insegnato da altri e integrato dalle mie esperienze nel corso degli anni, dei lunghi anni!

Da bracconiere a soccorritore degli animali

In passato braccavo gli animali. Lo facevo perché mi piaceva tenerli in gabbia per osservarli, li prelevavo per studiarli, proprio per questo motivo non ho mai usato armi da fuoco. Ho fatto il bracconiere anche quando avevo bisogno di soldi, catturavo la fauna che era stata definita nociva per la selvaggina, per la quale la Provincia e il Comune davano un premio in denaro.

Prestavo attenzione a quello che cacciavo, sceglievo i maschi più anziani, così rimanevano le femmine che davano i piccoli, di conseguenza altra cacciagione per l’anno dopo. A seconda della stagione cacciavo volpi, faine, martore, puzzole, corvidi e falchi. In montagna catturavo il gallo forcello e la pernice, non quella bianca però. Come la lepre variabile, questo animale vive ad altezze elevate e per catturarlo bisognava raggiungere luoghi pericolosi in quanto scende a bassa quota solo per riprodursi. La riproduzione è un momento fondamentale per la vita della fauna e io non ho mai cacciato nessun animale in quel periodo. Non ho mai cacciato nemmeno i camosci o gli stambecchi, anche se ho preso delle aquile con il gufo reale. Questa caccia è molto particolare perché si posiziona il gufo legato su un trespolo e si aspetta che le aquile gli vadano contro per mandarlo via, per proteggere il loro territorio: una volta vicine è più facile catturarle.

Cacciare come facevo io con le trappole è un metodo abbastanza subdolo, non è difficile ingannare un animale, soprattutto illudendolo con pezzetti di cibo. Quelli più difficili sono state le volpi e le cornacchie anche se, ti ripeto, con le trappole era molto difficile tornare a casa a mani vuote.

Addomesticare gli animali: giusto o sbagliato?

Non ho mai voluto addomesticare un animale, mi piace la loro selvaticità e mi da particolarmente fastidio quando vedo negli animali selvatici alcuni atteggiamenti umani, per esempio la richiesta di coccole, del tutto fuori dalla loro natura. È normale che un animale familiarizzi e diventi simpatico, come nel caso delle cornacchie, che hanno un’intelligenza fuori dal comune e sono degli approfittatori, però ti danno belle soddisfazioni, ti riconoscono e se rimangono vicino a te è perché stanno bene. La mia cornacchia è con me dal periodo dello zoo di Cuneo, dal 1979, e l’ho sempre tenuta libera, non mi ha mai abbandonato, è sempre rimasta con me perché lo voleva. Con i falchi è diverso, rimangono vicino all’uomo per fame, non perché lo desiderano.

Rapportarsi con l’ambiente

Nel corso degli anni abbiamo perso una delle caratteristiche principali nell’interrazione con l’ambiente: la capacità di osservarlo e comprenderne le dinamiche. Non siamo più in grado di fermarci ad osservare. Oggi studiamo l’ambiente e i suoi abitanti con molti mezzi (trappole fotografiche, binocoli ad alta risoluzione, macchine fotografiche veloci ed estremamente rapide) ma non è quello che facevamo noi. Noi potevamo fermarci con pazienza e semplicemente osservare, potevamo prenderci del tempo e aspettare un animale, impararne le abitudini e successivamente braccarlo. Allora non c’erano distrazioni, tutte le attività che ci sono ora non permettono più di scendere nel particolare, si rimane sempre in superficie, tutta la conoscenza di oggi è acquisita in maniera approssimativa, non ci si da più il tempo per comprendere intimamente. Il nostro spettacolo più grande era quello della natura e con l’osservazione ho imparato molto.

Ricordo che passavo delle ore sulla riva del fiume semplicemente ad osservare quello che accadeva: le rondini che passavano radenti l’acqua per bere o i pesci che venivano in superficie solo a determinate ore del giorno, il tempo speso in questo modo è stato il mio insegnante più importante. Credo che la natura sia un libro che tutti possono leggere ma in pochi possono capire. Per capire realmente i suoi insegnamenti bisogna avere tempo per osservarla e comprenderla, non si afferra tutto subito, ci sfuggono molti dei suoi meccanismi; solo osservandola si arriva alla comprensione e alla consapevolezza che quello che succede è tutto perfetto e ha un significato ben preciso.

Non c’è nulla che l’uomo abbia creato che la natura non abbia già fatto in precedenza e meglio. Penso alle ali degli uccelli, noi abbiamo creato molti tipi di tessuti con qualità differenti come l’assorbenza, la traspirabilità, l’impermeabilità, la leggerezza, la resistenza al freddo al vento e al caldo, ma nulla vale se paragonato all’ala di un uccello a cui basta essere lisciata ogni tanto per tornare efficiente e pulita. Un’ala talmente leggera che permette all’animale di volare. È tutto perfetto.

Il problema di oggi è anche che se ti fermi ad osservare la natura passi per un perditempo, perché non produci nulla, non consumi e non fai nessun tipo di attività, diventi strano.

Passaggio del testimone

Trovo purtroppo difficoltà a trasmettere ai giovani le esperienze di una vita a contatto con gli animali perché sono cambiati i tempi. Dagli anni Cinquanta ai Settanta c’è stato un cambiamento ambientale e culturale velocissimo, quasi da non credere, incredibile. Mi ricordo che prima le rive del Gesso e dello Stura, dopo Cuneo, erano ricoperte di gelsi, erano ovunque. Poi, al fine di sfruttarne il legno, li hanno sostituiti con i pioppi canadesi ed è cambiato tutto l’ecosistema: spariti i gelsi sono sparite le starne che si nutrivano delle formiche situate nel tronco di questo albero di cui erano ghiotte e che rappresentavano un importante nutrimento per i piccoli; inoltre si sono ridotti anche i rigogoli, nidiacei tipici della pianta.

Nei nostri torrenti non ci sono più le lontre, ho visto le ultime prima nel 1957 a Festiona e poi nel 1958 al Mulino di Sant’Anselmo, sotto Castelletto Stura, poi non le ho più trovate. Questi sì che erano belli animali da osservare, da conoscere. Come ho detto prima molte cose le ho imparate osservando e poi catturando, prelevavo gli animali che poi tenevo in cattività e li studiavo. Ora non preleverei mai un animale con una trappola e nemmeno lo insegnerei a nessuno, posso raccontarlo ma non mi augurerei mai che uno lo facesse.

Dopo la guerra, noi avevamo necessità di farlo e con la mia curiosità ho unito l’utile al dilettevole. Oggi posso spiegare la biologia di un animale, avendone avuti molti li ho conosciuti sotto diversi punti di vista, posso spiegare come riconoscerne uno da un altro, le particolarità di uno rispetto all’altro. Resta il fatto che molti animali, nella testa delle persone, rimarranno solo fantasmi o immagini fotografiche perchè non potranno mai vederle nel loro ambiente naturale, non ci sono più.

Rimorsi e rimpianti

I rimorsi riguardano tutto il male che ho fatto agli animali a cui ho depredato il nido, nell’arco dei tempi è cambiato qualche cosa dentro di me che mi ha fatto prendere una maggiore consapevolezza del dolore che ho causato. Ho iniziato a capirlo nel periodo dello zoo quando dovevamo togliere i cuccioli alle madri per mancanza di spazio. Toglievamo il cucciolo quando lei non c’era, come quando andavo a depredare i nidi per prendere i pulcini; al ritorno, appena la femmina comprendeva che il suo piccolo non c’era più, si dilaniava dal dolore ed era straziante starla a sentire. Ancora oggi sto male quando penso che sono stato artefice di tanta sofferenza nei confronti di un animale.

Di rimpianti ne ho solo uno. Avevo una corrispondenza con un professore universitario di Trento che aveva iniziato, negli anni Cinquanta, la reintroduzione di orsi provenienti della Slovenia in Italia. Avevo letto un suo articolo su Diana, una rivista di cacciatori unica che in quel periodo si occupava di ambiente, e così incuriosito dai suoi studi ho deciso di scrivergli, ovviamente non esitavano né telefoni né altri mezzi di comunicazione oltre alle poste. Mi ha risposto molto velocemente e abbiamo iniziato una corrispondenza particolarmente fitta per circa un anno. Dopo una serie di amare delusioni dovute al fatto che in Italia subiva l’avvelenamento degli orsi da lui introdotti, ha deciso di lasciare tutto e trasferirsi in Canada.

Mi aveva invitato ad andare con lui, io però ero minorenne, avevo 18 anni ma si diventava maggiorenni a 21, per cui i miei genitori non mi hanno fatto partire. Con il senno di poi mi rendo conto che è andata bene così, non avrei avuto le mie figlie e conosciuto mia moglie, anche se non so cosa avrei trovato lì. Il Canada mi è rimasto nel cuore, mi era stato descritto come il paradiso terrestre degli animali, chissà!

Intervista raccolta da Michela Del Torchio / Foto di Michela Del Torchio

Il Centro Recupero Animali Selvatici di Bernezzo opera in provincia di Cuneo dal 2001, in seguito all’approvazione della legge Regionale 33/96 (Ph Michela Del Torchio)