Chi ha rubato l’acqua?

18 marzo 2020 - 10:12

Assediati da ossessive campagne mediatiche contro “l’altro”, il “foresto barbaro invasore”, che ruba, stupra, contamina e insozza la nostra civiltà, mentre la parte più retriva del potere clericale si scaglia contro la contraccezione e contro “l’eutanasia” di poveri corpi in stato vegetativo permanente, e chi “governa” la scuola invece di puntare al miglioramento dell’istruzione invoca il ripristino di un “ordine” che passa attraverso la reintroduzione di grembiulini di littoria memoria, riusciamo a indignarci sempre meno per le violazioni, sempre più plateali, dei diritti primari degli uomini, che però pensiamo offesi e frustrati soltanto nei paesi privi di “santità democratica”.
Una “santità” che tutto agglomera e confonde, nascondendo magagne sempre più mostruose della nostra “civiltà” ormai totalmente asservita al “dio denaro”.
Eppure, a osservare oltre la cortina fumogena di un’informazione deviata e condizionata non è difficile intravedere, nella realtà quotidiana, manipolazioni capaci di stravolgere per sempre equilibri ancestrali che da sempre governano la vita.

Il 25 giugno 2008, con l’approvazione dell’articolo 23bis del decreto legge 112, il governo italiano per bocca del ministro Tremonti ha sancito di fatto la privatizzazione dell’acqua, bene primario finora considerato universalmente inalienabile. Con questo provvedimento si afferma che la gestione dei servizi idrici deve essere sottomessa alle regole dell’economia capitalistica, divenendo Servizio pubblico locale di rilevanza economica. Con una manovra corsara passata sotto drammatico silenzio, il governo Berlusconi ha sancito che in Italia l’acqua non sarà più un bene pubblico ma una merce, e quindi sarà gestita da multinazionali, le stesse che già possiedono gli sfruttamenti delle acque minerali, altro bene pubblico scippato ai cittadini.
La privatizzazione dell’acqua, che sta avvenendo a livello mondiale, provocherà, nei prossimi anni, milioni di morti per sete nei paesi più poveri. L’acqua non è una merce, è un diritto fondamentale per la vita e nessuno dovrebbe appropriarsene per trarne illecito profitto. Invece l’acqua è il tesoro per cui si combatteranno le prossime guerre, che saranno dirette e gestite dalle multinazionali.
Nel tentativo di lanciare un messaggio a quanti hanno ancora a cuore il diritto e la coscienza, accogliamo con orgoglio un intervento di Paolo Rumiz, scrittore di fama internazionale ed editorialista de La Repubblica, da cui è tratto il seguente articolo.

È un peccato che non possa parlarvi a voce. Solo a voce avrei potuto comunicarvi l’urgenza, la rabbia e l’indignazione legate al tema primordiale dell’acqua. Sono un professionista della parola scritta, ma so che solo il racconto orale sa trasmettere sentimenti forti. Questo scritto è dunque solo un ripiegamento, dovuto a forza maggiore.
Mi sono occupato di molti temi nel mio mestiere. Guerre etniche e planetarie, crolli di sistemi e di alleanze politiche, esplorazione dei territori e viaggi alle periferie del mondo.
All’acqua sono arrivato solo pochi mesi fa, quasi per caso, grazie a una segnalazione di Emilio Molinari. Era successo che era stata approvata una legge che rendeva inevitabile la privatizzazione dei servizi idrici. La svendita di un patrimonio comune, mascherata da rivoluzione efficientista. Tutto questo era avvenuto nel mese di agosto, alla chetichella, senza proteste da parte dell’opposizione. Il popolo era rimasto tagliato fuori da tutto. Gli interessi attorno all’operazione erano così trasversali che i giornali avevano taciuto, i partiti e i sindacati pure.
Mi sembrava inverosimile che una tale enormità potesse passare sotto silenzio. Così ne ho scritto. E la pioggia di lettere attonite che ho ricevuto in risposta hanno confermato l’assunto. L’Italia non ne sapeva niente.
Non entro nello specifico di questa scandalosa ruberia inflitta agli italiani. Altri lo faranno meglio di me. Dico solo che occupandomene, dopo 35 anni di mestiere, ho provato lo stesso brivido della guerra nei Balcani. Come allora, ho avuto la certezza che cadesse un sipario di bugie, e si svelasse la verità nuda di una rapina ai danni del Paese e dei suoi abitanti, l’ultimo assalto a un territorio già sfiancato dalle mafie, dalle tangenti e dalla dilapidazione del bene comune.
Pensiamoci un attimo.
I giornali pompano mille emergenze minori per non farci vedere quelle realmente importanti. La tensione etnica aumenta. Ci parlano di clandestini, di rumeni stupratori, di terroristi annidati nelle moschee. Ci infliggono ronde per tenere testa a una criminalità che – stranamente – non include la camorra, la speculazione edilizia o lo strapotere degli ultras. Televisione, telefonini, i-pod costruiscono una cortina fumogena che incoraggia il singolo ad arraffare e impedisce al gruppo di reagire.
È così evidente. Noi non dobbiamo sapere che esiste un’altra e più grave emergenza: la distruzione del territorio. Un’emergenza così grave che la lingua dell’economia non basta più a descriverla. Oggi serve la lingua del Pentateuco, o dell’Apocalisse di Giovanni, perché viviamo un momento biblico. E verrà il giorno in cui le campagne si desertificheranno e la boscaglia invaderà ogni cosa, i ghiacciai entreranno in agonia e l’aria diverrà veleno. Il tempo in cui la natura sarà offesa nelle sue parti più vulnerabili. Se i nostri padri ci avessero fatto una simile profezia non li avremmo creduti. Invece succede.

Siamo in guerra. Una guerra contro i territori. In Italia è iniziata la guerra per l’accaparramento delle ultime risorse.
Sta già avvenendo: cementificazione dei parchi naturali; requisizione delle sorgenti; privatizzazione dell’acqua pubblica; discariche e inceneritori negli spazi più incontaminati del Paese; ritorno al nucleare; grandi opere imposte con la militarizzazione dei territori e la distruzione di interi habitat;
fiumi già in agonia, disseminati di ulteriori centrali idroelettriche; impianti eolici che stanno cambiando i connotati all’Appennino.
Tutto conduce su questa strada: la ricorrente invocazione di poteri forti ai danni del parlamento; il fallimento del pubblico e l’invadenza del privato; la sottrazione delle risorse ai Comuni; lo smantellamento della democrazia diretta; la corsa a un federalismo irresponsabile che assomiglia tanto a una licenza di sperpero; la deregulation legislativa; la crisi della scuola e delle università; la visione speculativa e finanziaria dell’economia.
È come negli anni Trenta: crisi del capitalismo, opposizione inesistente, criminalità diffusa. Ma con l’aggravante della desertificazione dei territori e dello spopolamento della montagna.
Il Paese si è talmente indebolito che l’atteggiamento predatorio che abbiamo rivolto prima verso la Libia o l’Etiopia e poi verso l’Est Europa, può essere rivolto oggi verso l’Italia stessa, senza il rischio di una rivoluzione.
Anche noi diventiamo discarica, miniera, piantagione.
E anche da noi i territori deboli sono lasciati completamente soli di fronte ai poteri forti. Come le tribù centro-africane.

Guardate cosa succede con l’eolico. Gli emissari di una multinazionale dell’energia si presentano a un comune di cinquecento-mille abitanti. Offrono centomila euro l’anno per due o tre pale eoliche alte come grattacieli di trenta piani. Il sindaco al verde non ha alternative. Accetta. Per lui quelle pale sono il solo modo per pagare l’illuminazione pubblica e gli impiegati.
La Regione e lo Stato non intervengono. In nome dell’emergenza energetica passano sopra a tutto, anche a un bene primario come il paesaggio.
Risultato? Oggi la rete eolica italiana segna come le pustole del morbillo i territori deboli, incapaci di contrattare.
Con l’acqua la situazione è ancora più limpida.
Vi racconto cose che ho visto personalmente. Qualche scena, capace di illuminare il tutto.
Alta Val di Taro – C’è una fabbrica di acque minerali che succhia dalle falde appenniniche in modo così potente che nei momenti di siccità gli abitanti del paese (noto fino a ieri per le sue fonti terapeutiche e oggi semi abbandonato) restano senz’acqua nelle condutture pubbliche. C’è una protesta, ma il sindaco tranquillizza tutti in consiglio comunale. Non abbiate paura – dice – quando mancherà la “nostra” acqua, la fabbrica pomperà la “sua” nei nostri tubi. L’acqua del paese è data già per persa, requisita dai padroni delle minerali. L’idea che si tratti di un bene pubblico e prioritario non sfiora né il sindaco né la popolazione rassegnata.

Recoaro, provincia di Vicenza – Una pattuglia di “tecnici dell’acqua” (così si presentano), fanno visita a una vecchia che vive sola in una frazione di montagna. Le chiedono di poter fare delle verifiche alle falde. La donna pensa che siano del Comune. Il lavoro dura un mese. I tecnici trivellano, trovano acqua. Poi chiudono il pozzo aperto con dei sigilli. A distanza di mesi si scopre che la fabbrica di acque minerali della zona sta facendo un censimento delle fonti potabili in quota, in vista della grande sete prossima ventura della Terra in riscaldamento climatico. I parenti della donna si accorgono del maltolto e sporgono denuncia. Scoprono di essersi mossi appena in tempo per evitare l’usucapione del pozzo. Il sindaco tace. Gli abitanti di Recoaro pure. Ciascuno vende le sue fonti in separata sede.
Castel Juval, in val Venosta – Qui potete fare le vostre verifiche da soli. Vi sedete al ristorante dell’agriturismo di Reinhold Messner e chiedete dell’acqua. Scoprirete di avere due opzioni: l’acqua minerale, la notissima acqua propagandata dall’alpinista sud-tirolese, e l’acqua di fonte. La fonte di Reinhold Messner. Ebbene, anche questa è a pagamento. Metà prezzo rispetto a quella in bottiglia, ma anch’essa a pagamento. E la gente beve, estasiata.
Vedere per credere.

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