PERCHE’ IL SILENZIO NON HA PAROLE

18 marzo 2020 - 10:47

Abbiamo vissuto insieme un periodo magnifico, Daniele ed io. Senza responsabilità nè pensieri. L’età dei vent’anni, passata a cercare sulle pareti di roccia delle Dolomiti nuove fantasie da accarezzare con la punta delle dita. Il mio decrepito furgone mercedes biancoazzurro ci portava a zonzo da una valle all’altra, e l’unico “obbligo” era arrampicare. Obbligo che spesso, però, non assolvevamo. Perdendoci in “esplorazioni” che spesso ci portavano, con la scusa di inventare una nuova via di scalata, tra muschi, sabbie e sfasciumi di pareti impossibili. Lo odiavo quando mi trascinava in quelle situazioni. Poi, il giorno dopo, di nuovo legati alla stessa corda. Delle mie avventure con Daniele ricordo molto più facilmente camminate eterne alla scoperta del mondo della montagna piuttosto che imprese alpinistiche mirabolanti. Quando nessuno voleva più seguirlo nei suoi miraggi, ha continuato per anni, ostinato e autentico pioniere, a frugare da solo angoli reconditi e inacessibili delle rocce dal canale del Brenta, in Valsugana, ai territori più remoti del Lagorai. È diventato Guida Alpina, ma non ha mai smesso di amare le minuscole emozioni che regala un fiore cresciuto tra le pietre, un raggio di sole che buca la foschia dell’alba, l’odore della pioggia sugli alpeggi, le suggestioni delle malghe e delle vite che tra quei muri di larice anneriti dal tempo si sono consumate. Qualche anno fa abbiamo rivissuto, da “professionisti”, una nuova avventura insieme portando per un paio di stagioni gente di ogni tipo alla scoperta del Lagorai. E, di nuovo, ho avuto modo di apprezzare il suo modo, lento ma inesorabile, di affrontare la vita. Pensavo di conoscere bene l’amico con cui ho condiviso frammenti importanti di esistenza, mi scopro ad averne conosciuto e apprezzato solo una parte.
Mi capita molto raramente di essere invidioso di una fotografia, attimo di vita rubato al tempo. Sfogliando la più bella impresa di Daniele, realizzata non su una parete di roccia ma raccontata per immagini nelle pagine di questo libro, ho provato un affettuoso e piacevole moto di gelosia per istanti irripetibili che mi sono sfuggiti. Che invece lui, con pazienza e caparbietà, è riuscito a imprigionare per sempre nelle difficili sfumature del bianco/nero.
Un libro fotografico “vecchio”, nel significato più pregiato e pregevole del termine. Attento a ogni dettaglio per cercare di rendere immortale un universo, quello della malga, fatto di minuscole variazioni. Apparentemente immobile, che invece, purtroppo, sta scivolando nell’oblio. Trascinando con se una cultura millenaria condannata a svanire perchè priva di un qualsiasi aspetto eclatante, spettacolare. Una cultura, quella della malga, degli alpeggi e dei pastori, costruita su fatiche ripetute all’infinito, seguendo il ritmo delle stagioni e gli umori di una montagna spesso ostile, dura.
Lampi di luce, negli occhi degli uomini, degli animali e dell’universo alpino, difficili da intuire. Scontrosi e timidi. Sfuggenti. Che Daniele è riuscito a trasformare in realtà perchè era lì. Non da un giorno, da una settimana, da un mese, da un momento fortuito può nascere un capolavoro di poesia visiva come questo. Soltanto dalla passione costante di lunghi anni di curiosità e condivisione, che Daniele ha saputo trasformare in un libro imperdibile.
Un solo, unico e piccolo appunto personale al curatore del volume, da esteta dell’immagine e al tempo stesso giocoliere di parole: avrei lasciato il libro muto, senza appendici poetiche di altri, a volte aliene alla poesia immaginifica dell’autore principale. Perchè la fotografia di Daniele Lira, straordinaria nella sua immediata comunicazione, racconta il silenzio come nessuna valanga di vocaboli potrà mai fare.

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