Siamo nati per la natura: la ricerca che spiega perché la vita moderna ci stressa

Gli antropologi evoluzionisti dell'università di Zurigo e di Loughborough hanno studiato come l’ambiente industrializzato sia in profondo conflitto con la fisiologia umana. Siamo modellati da milioni di anni per vivere in contesti naturali e non per la città: ecco perché abbiamo bisogno di natura e vita all’aria aperta

24 novembre 2025 - 12:16

Gli esseri umani si sono evoluti per vivere e muoversi nella natura, non nelle città.

Lo affermano gli antropologi evoluzionisti Colin Shaw, dell’Università di Zurigo, e Daniel Longman, della Loughborough University, in un nuovo paper pubblicato su Biological Reviews.

Il loro lavoro mette in luce un concetto semplice ma dirompente: la vita moderna è andata molto più veloce della nostra evoluzione biologica.

Per centinaia di migliaia di anni, spiegano i ricercatori, gli esseri umani si sono adattati a un’esistenza fatta di mobilità quotidiana, in ambienti naturali e con picchi di stress legati quasi esclusivamente a minacce reali, immersione costante negli ambienti naturali.

Solo negli ultimi secoli l’industrializzazione, l’urbanizzazione e la tecnologia hanno trasformato il nostro habitat e il nostro modo di vivere con una rapidità tale che il nostro organismo non è in grado di seguire.

 Il paradosso dello stress moderno: reagiamo come se avessimo leoni intorno

“Nei nostri ambienti ancestrali, eravamo ben adattati ad affrontare lo stress acuto per eludere o affrontare i predatori”, ricorda Shaw, che insieme a Longman coordina il gruppo di ricerca Human Evolutionary EcoPhysiology (Heep).

Nella savana, spiegano i ricercatori, lo stress era intenso ma intermittente: “Il leone arrivava di tanto in tanto… La cosa importante era però evitare la minaccia in quell’istante e poi tornara ad uno stato di quiete”.

Oggi quei “leoni” sono altri, come il traffico, le scadenze lavorative, i social media, l’inquinamento luminoso e acustico.

La differenza è che questi stimoli sono costanti e attivano gli stessi sistemi biologici della fuga o della lotta che venivano scatenati dai predatori nella savan, ma la differenza è che oggi queste minacce sono costanti e non si risolvono.

Longman lo riassume così: “Che si tratti di una discussione difficile con il tuo capo o del rumore del traffico, il tuo sistema di risposta allo stress è sempre lo stesso, come se ti trovassi di fronte a un leone dopo l’altro. Di conseguenza, hai una risposta molto potente da parte del tuo sistema nervoso, ma nessuna ripresa”.

Il problema, secondo i ricercatori, sta proprio nel rapporto tra il nostro sistema fisiologico di risposta allo stress, modellato su minacce serie ma brevi alla incolumità, e la società attuale.

Oggi, nella nostra vita di città, non sperimentiamo quasi mai minacce letali, ma siamo costantemente sotto stress a causa di quelle che noi percepiamo come minacce comunque rilevanti: il lavoro, i conflitti familiari, le difficoltà economiche.

Il nostro organismo reagisce come è programmato per fare, ovvero come se fossimo davanti ad un predatore e dovessimo scappare per metterci in salvo.

La differenza che i moderni predatori, non ci lasciano mai, e continuano a seguirci: per questo siamo costantemente sotto stress.

Fertilità in calo e infiammazioni croniche: i segnali del mismatch evolutivo

Nel loro lavoro, Shaw e Longman hanno mostrato una grande quantità di evidenze che indicano come l’ambiente industrializzato stia erodendo la fitness evolutiva dell’uomo, ovvero la capacità di sopravvivere e riprodursi.

I ricercatori, nel corso del loro studio, hanno osservato:

  • un calo globale dei tassi di fertilità,
  • un aumento delle condizioni infiammatorie croniche, come alcune malattie autoimmuni,
  • la diminuzione della qualità dello sperma a partire dagli anni Cinquanta del novecento.

Shaw ha sottolineato come diversi fattori ambientali incidano direttamente sulla salute riproduttiva: pesticidi e erbicidi negli alimenti, microplastiche, inquinanti prodotti dall’industria.

“É un paradosso”, osserva il ricercatore. Pur avendo creato ricchezza, comfort e assistenza sanitaria, molti risultati della modernità stanno avendo effetti negativi sulle funzioni immunitarie, cognitive, fisiche e riproduttive.

La città come ambiente ostile

Il problema centrale è la lentezza dell’adattamento biologico. “L’adattamento biologico è molto lento” ha spiegato Shaw, le modifiche genetiche a lungo termine richiedono decine o centinaia di migliaia di anni: molto più di quanto abbiano impiegato città, industria e tecnologia a trasformare le condizioni di vita.

Questo significa che il “mismatch evolutivo” – ovvero la discrepanza tra ciò a cui siamo adattati e ciò che viviamo – non può risolversi spontaneamente. Richiede interventi culturali e ambientali consapevoli.

Ripensare il rapporto con la natura

Secondo i ricercatori, le soluzioni devono partire proprio dal riconoscimento del valore primario degli ambienti naturali.

“Un approccio è quello di ripensare radicalmente il nostro rapporto con la natura, trattandola come un fattore chiave per la salute e proteggendo o rigenerando spazi che assomiglino a quelli del nostro passato di cacciatori-raccoglitori” ha raccontato Shaw.

Non si tratta solo di preservare ecosistemi, ma di ricostruire ambienti che rispecchino i bisogni fisiologici umani: movimento, luce naturale, biodiversità, alternanza tra stimoli e quiete.

 Costruire città più sane: indicazioni dalla fisiologia umana

Oltre a ripensare la natura, Shaw e Longman ha proposto anche un secondo livello d’azione: ridisegnare gli spazi urbani in modo che tengano conto del corpo umano.

“La nostra ricerca può identificare quali stimoli influenzano maggiormente la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca o la funzione immunitaria,” hanno dichiarato i ricercatori.

Questo significa portare le evidenze della fisiologia nelle mani di architetti, urbanisti e decisori politici.

Secondo i ricercatori, città più sane devono:

  • ridurre l’esposizione a rumore, luci artificiali e inquinanti,
  • integrare più spazi verdi accessibili,
  • creare aree che favoriscano mobilità attiva e tempi di recupero,
  • incrementare la presenza di ambienti che imitino quelli naturali.

Per gli appassionati di outdoor e natura il lavoro di Shaw e Longman è un’ulteriore conferma di qualcosa che spesso si intuisce sul campo: stare nella natura ci fa stare meglio perché siamo progettati per essa.

Il benessere dopo una camminata, la calma che di deriva dal vivere in un bosco, la capacità di recuperare energie mentali durante un percorso lento non sono suggestioni romantiche: sono risposte fisiologiche, radicate nella nostra storia evolutiva.

 

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