Exxon Valdez, venti anni dopo

18 marzo 2020 - 10:12

Dal tanker fuoriuscirono 37000 tonnellate di greggio che contaminarono più di 2000 chilometri di costa. Questo evento causò il più grave disastro ambientale della storia statunitense. Durante le bonifiche che seguirono furono raccolte le carcasse di 1000 lontre di mare, 151 aquile, 838 cormorani, 1100 urie marmorizzate e altre 3200 specie di uccelli.

Da allora sono passati venti anni. E nuovi eventi, disastri, crisi, guerre si sono sedimentati nella memoria. Ma scavare, con delicatezza, in questi ricordi è importante. Grazie alle ditte Columbia e Sorel, che ci hanno affiancato nel progetto, abbiamo potuto visitare il luogo dell’incidente e parlare con esperti e persone locali.
Agitando i sedimenti dei ricordi e andando ad aggiornarli con le informazioni di oggi, abbiamo scoperto che il disastro ha lasciato un’eredità profonda e duratura. L’Alaska era considerata “l’ultima frontiera”, l’ultima wilderness del continente nordamericano, un territorio remoto, puro. Il disastro della Exxon Valdez lacerò l’ideale americano, ponendo la collettività di fronte alla realtà: non esiste nessuna vera “ultima frontiera”.

Nel 1990 la giustizia americana impose alla Exxon 5 miliardi di dollari per “danni punitivi”, che si sommavano ai risarcimenti e alle multe (in parte restituite dalle assicurazioni) già pagate dalla compagnia.
Ma agendo sul fattore tempo e continuando ad opporsi ai legali di parte civile, nel 1994 in sede di appello la Exxon ottenne che la “multa” venisse dimezzata. E non si arrese ancora.
Nel 2007 ricorse in appello e la corte suprema ridusse i danni a 507 milioni di dollari, un decimo rispetto alla sentenza iniziale. Che la Exxon (a vent’anni dal disastro) si affretta ora a versare. Questa somma verrà distribuita tra le 33000 vittime. Anzi no, ad essere precisi tra le 27000 vittime, perchè nel frattempo 6000 anime sono passate a miglior vita, e non godranno del risarcimento. Nel 2008 la compagnia ha fatto utili record: 47 miliardi di dollari. I danni punitivi inizialmente richiesti corrispondono a tre settimane di utili circa.

Agitando i sedimenti si scopre che vent’anni dopo il Prince William Sound si è ripreso, sì, ma non del tutto. Il golfo è anzi divenuto un malato cronico. Questi sono i risultati di venti anni di ricerche degli scienziati della Exxon Valdez Oil Spill Trustee Council (EVOSTC), un organo creato con i fondi del disastro. La EVOSTC ha distribuito 178 milioni di dollari a più di cento ricercatori, i quali hanno scoperto che ci sono ancora almeno 80.000 litri di greggio sparsi in centinaia di spiagge del golfo. Se il degrado del greggio continua a questo ritmo, ci vorranno ancora decine di anni affinché il Prince William Sound ritorni come era prima del 1989. Anche la popolazione delle aringhe (che forniva il 50% dell’intero pescato del golfo) non si è mai ripresa. Migliaia di pescatori fecero bancarotta (molti non riuscirono più a coprire i debiti per le licenze e per l’acquisto dei pescherecci). Oggi la pesca è ancora chiusa e non si vede segno di ripresa.

La baia, circondata da montagne innevate e ghiacciai che si tuffano in fiordi spettacolari, a vederla è ritornata un paradiso. Ed in effetti lontre, uccelli e salmoni si sono ristabiliti. Però chi rivolta le pietre e studia la biologia del golfo sa che non è così.
Della vicenda, che la compagnia petrolifera darebbe per archiviata, c’è un aspetto spesso dimenticato: il risvolto umano, l’impatto sulle popolazioni locali, quelle che il golfo lo abitano da generazioni lontane, da prima dell’arrivo dei coloni europei. Sono i nativi, in tutto circa 2000, concentrati soprattutto nei villaggi di Tatitlek e Chenega Bay.
Nella cultura tradizionale dei nativi, gli animali si reincarnano, e quando un cacciatore uccide una foca, per esempio, sta uccidendo l’animale che suo padre, e prima ancora suo nonno, aveva cacciato. La natura gli concede di fare questo ad una condizione: che l’animale sia ucciso con rispetto. Dopo il disastro i cacciatori di Chenega credettero con preoccupazione che le foche, da sempre vissute e reincarnate in quei luoghi, sentendo l’odore del greggio, non sarebbero mai più tornate.
Per i nativi la natura della contaminazione era così poco familiare che le soluzioni tradizionali non erano sufficienti. Si affidarono quindi alla scienza. Ma questa non poteva fornire risposte chiare ed immediate alle domande dei locali. I risultati delle ricerche erano inconclusivi. In alcuni casi, gli scienziati dissero che la contaminazione poteva causare nei pesci una riduzione della crescita, della fertilità, o una maggiore sensibilità alle malattie, ma, concludevano: “il pesce è comunque commestibile”.
I cacciatori locali questo non lo potevano accettare, non capivano come poteva essere buono qualcosa che è malato. Avvenne perfino che, non potendo accedere alla caccia di foche, alla pesca o alla raccolta dei molluschi, in alcuni villaggi furono portati containers carichi di hamburger ed altro cibo di origine “occidentale”. Per i locali però, mangiare va al di là del semplice nutrimento fisiologico; per loro significa entrare a far parte dell’intero sistema naturale, entrare in contatto con lo spirito dell’animale cacciato. È un rituale cosmico.
Improvvisamente, i nativi si sentirono insicuri, sfiduciati.
Popolazioni in grado di affrontare catastrofi naturali e reagire con assoluta dignità e coraggio ad esse, percependole come atti divini, da comprendere accettare ed affrontare, appaiono totalmente disarmate e disorientate di fronte a tragici eventi dai nomi innaturali come “contaminazione per idrocarburi”, di cui non si conosce l’entità dei danni e delle conseguenze. Catastrofi non naturali, ma causate da uomini, incapaci non solo di prevenire tali disastri ma anche di trovare soluzioni e rimedi per l’ecosistema, vittima innocente di questi soprusi.
In venti anni di discussione su come gestire i postumi del’Exxon Valdez, la dimensione umana è stata trascurata.
Una dimensione umana che porterà i segni di questo disastro come propria eredità, per sempre. 

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