Il tempo dell’incertezza: c’è ancora bisogno di libertà

Fra le tante ansie che assillano le vite di tutti noi in questi mesi di pandemia, gli appassionati di escursionismo e degli altri sport di montagna sembrano averne anche qualcuna speciale, che pare fatta su misura per loro, come se già non ce ne fossero abbastanza in questo molesto anno bisesto...

5 giugno 2020 - 16:23

Per venire subito al sodo, la preoccupazione che molti amanti dell’outdoor chiaramente percepiscono è questa: tutte le limitazioni della libertà personale e i divieti istituiti nel nome del superiore e sacrosanto interesse del controllo della pandemia non rischiano forse di aprire definitivamente la strada a quella concezione sicuritaria della società che già da tempo è ormai in cammino?

MOLTIPLICARSI SI ORDINANZE – Negli anni passati escursionisti e alpinisti hanno già esperito questa tendenza, con il progressivo moltiplicarsi di ordinanze mirate a regolare e gestire l’accesso e le modalità di fruizione dell’ambiente montano, in particolare per quanto concerne l’esposizione ai suoi pericoli intrinseci.

Le attività più interessate da questi provvedimenti sono lo scialpinismo e l’escursionismo invernale, ambiti sui quali le autorità locali intervengono con frequenza sempre maggiore per emanare divieti alla frequentazione di determinate aree montane, in occasione del verificarsi di particolari situazioni di pericolo legate alle condizioni del manto nevoso e alle valanghe, col rischio, come già è avvenuto in alcuni casi, che il divieto, una volta istituito, poi non venga più rimosso, onde evitare guai al legislatore stesso…

A ciò si associa anche una certa tendenza colpevolistica da parte dei tribunali, che, nell’esprimersi sui casi relativi agli incidenti in montagna, in particolare quelli legati al distacco di valanghe, sembrano sempre più propensi ad adottare una linea dura, giudicando questi fenomeni come dolosi e quindi individuando colpevoli ai quali infliggere pene.

Celebre è il caso dei due studenti tedeschi arrestati per aver provocato una valanga nella zona di Livigno. Valanga che, peraltro, non aveva arrecato danno a persone o cose.

LIMITAZIONI PER LE ESCURSIONI ESTIVE – Però ce n’è anche per gli escursionisti estivi, come dimostra l’ordinanza del Parco Nazionale delle 5 Terre, che ha deciso di consentire l’accesso ai sentieri solo a chi indossa “calzature idonee”, stabilendo pesanti sanzioni (da 50 a 500 euro) per chi venisse sorpreso a camminare senza le attrezzature appropriate, ovvero con ai piedi normali scarpe da città o, addirittura, le famigerate ciabatte infradito.

Tutto ciò alla luce del fatto che, negli anni passati, diversi escursionisti che indossavano questo tipo di calzature, si sono trovati in difficoltà sui sentieri o addirittura hanno dovuto essere soccorsi per incidenti più o meno gravi.

Ancora più scalpore ha fatto la scorsa estate il “numero chiuso” imposto dalle autorità del versante francese del Monte Bianco, che hanno limitato gli accessi alla via normale della montagna solo agli alpinisti che prenotano il pernottamento al rifugio Goûter. Per tutti gli altri vige il divieto assoluto ovviamente sanzionato con salatissime contravvenzioni.

La preoccupazione rispetto a queste tendenze regolamentatrici – così in contrasto con la concezione ormai consolidata da almeno 200 anni nella pratica delle attività outdoor in ambiente montano, che vede lo spazio naturale come un luogo di esercizio della libertà e della responsabilità personali – non è solo un puntiglio di pochi esaltati, ma rappresenta sicuramente uno dei temi all’ordine del giorno per le grandi associazioni depositarie della cultura dell’alpinismo e dell’escursionismo.

 

LE PREOCCUPAZIONI DEL MONDO DELL’ALPINISMO E DELLA MONTAGNA – Lo dimostra il manifesto dell’Assise dell’Alpinismo, documento col quale le principali associazioni francesi di montagna (Fédération française des clubs alpins de montagne, Fédération française de la montagne et de l’escalade, il Groupe de haute montagne, il Syndicat national des guides de montagne, il Syndicat national des gardiens de refuge et gîtes d’étape, il Syndicat national des professionnels de l’escalade et du canyon, il Syndicat national des accompagnateurs en montagne, l’Union des centres sportifs de plein air, la Grande Traversée des Alpes e Mountain Wilderness) si sono date lo scopo comune di promuovere determinate tematiche fra le quali spicca quella della libertà di accesso ai luoghi della pratica delle diverse discipline outdoor.

Ancor più mirata è la funzione dell’Osservatorio per la Libertà in montagna, istituito nel 2012 dal Club Alpino Italiano, dall’associazione Guide Alpine Italiane, dal Club Alpino Accademico, dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico e dalla Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo Scialpinismo e Arrampicata libera del Cai.

Proprio al fine di “evitare regolamentazioni unilaterali e limitazioni della pratica alpinistica da parte di autorità e privati, assicurare e promuovere il libero e responsabile accesso ed esercizio alpinistico in montagna come forma di un’esperienza unica che va garantita anche alle generazioni future”.

Il timore condiviso da molti è appunto che, dopo la pandemia di Covid 19, regolamenti unilaterali e limitazioni diventino la norma socialmente condivisa e accettata.

I mesi di lockdown in fondo hanno dimostrato non solo che si possono sospendere libertà costituzionali fondamentali, come quella di movimento nell’ambito del territorio nazionale, ma anche che la collettività è decisamente ben disposta e docile rispetto a queste limitazioni, allorquando siano applicate in nome del bene superiore della pubblica sicurezza.

Porte spalancate alla società sicuritaria dunque? Certo qualche timore in tal senso è più che giustificato, ma forse ci sono buone ragioni per per intravvedere anche la possibilità di sviluppi positivi.

Quelle limitazioni e quei regolamentazioni unilaterali, che fino a pochi mesi fa andavano ad incidere sulla vita di pochi e sparuti gruppi sociali (escursionisti, alpinisti, scialpinisti, ecc.) oggi sono esperienza collettiva di tutta una nazione, qualcosa che si fa presente nella quotidianità ti ciascuno di noi.

Tutti abbiamo percepito la differenza che passa fra un provvedimento drastico, ma adottato secondo un criterio di razionalità e con la chiara finalità di scongiurare il verificarsi di un disastro collettivo, e le regolamentazioni isteriche e prive di un fondamento basate su constatazioni sensate, il cui vero obiettivo, più che che evitare o contenere un danno, è piuttosto quello di evitare che un giorno qualcuno possa accusare il legislatore di non aver preso tutti i provvedimenti necessari per evitare che il danno si verificasse.

IL RISCHIO DI DERIVE SECURITARIE – Oggi è chiara a tutti, perché tutti l’abbiamo sperimentata, la differenza che c’è, ad esempio, fra il divieto ad uscire di casa imposto come estremo argine a un virus ormai fuori controllo, e certi provvedimenti di dubbia razionalità, come quello emanato nelle scorse settimane dal sindaco di Genova, la città dove vivo, che impone l’obbligo di utilizzo della mascherina anche quando si sta all’aperto, indipendentemente dalla presenza o meno di altre persone a distanza ravvicinata.

L’incongruenza di tale imposizione è palese: quando si mantiene la distanza di almeno 2 metri dagli altri, indossare la mascherina è solo un inutile aggravio di disagio, che, probabilmente, gran parte dei cittadini finiranno comunque col disattendere, senza che nessuno se ne accorga.

Quei pochi sfortunati che verranno colti in “flagranza di reato” si vedranno forse appioppare qualche odiosa sanzione (odiosa proprio in quanto sanziona un comportamento che in realtà non è dannoso per nessuno), impartita da qualche zelante funzionario.

Credo sia evidente la ratio di provvedimenti come questo: vietare un comportamento di per sé innocuo per timore che i cittadini ne abusino, sconfinando nell’illecito e provocando danni alla società. Un po’ come vietare l’uso dell’automobile per paura che qualcuno vada contromano.

Questo è proprio uno di quegli esiti paradossali a cui può giungere la deriva securitaria che tanti appassionati di montagna da anni denunciano e contrastano.

Dietro questa denuncia non c’è la pretesa di poter fare sempre e in ogni caso quel che si vuole, quanto piuttosto la volontà di difendere la propria libertà di azione e di scelta anche quando questa espone al rischio dell’errore, del fallimento, del danno per sé e per gli altri.

Tale rischio, infatti, fa parte dell’essenza stessa della libertà, che, come ci hanno insegnato coloro che hanno traghettato l’uomo occidentale fuori dalla sua “condizione di minorità”, è qualcosa di grande e allo stesso tempo terribile.

Agire preventivamente in nome della sicurezza per chiudere ogni spiraglio all’errore e al pericolo equivale a soffocare lo spazio vitale della libertà.

TUTELA DELLA SALUTE E DELLA LIBERTÀ – È in questa forbice che occorre trovare il delicatissimo e sempre dinamico equilibrio fra i doverosi interventi a tutela della salute e le isterie securitarie, avendo sempre consapevolezza che le decisioni, più che dai principi assoluti (Libertà vs Sicurezza), dovrebbero essere orientate dalla constatazione delle conseguenze.

Quanti incidenti, quanti morti, quanto dolore costa il nostro modo di esercitare la “libertà di andare dove voglio” fra le montagne? Quanta infelicità, quanta frustrazione, quanta perdita in qualità della vita e in realizzazione di sé stessi si paga all’idolo della sicurezza?

Esercitare la libertà, dicevamo, significa essenzialmente e inevitabilmente esporsi al pericolo (ossia al rischio che si verifichi un evento dannoso) e l’esperienza di questa esposizione è qualcosa che in determinate situazioni e ambienti è più in evidenza rispetto ad altri.

Chi ha a che fare con l’ambiente naturale, come gli appassionati di montagna, conosce bene il senso di sottile inquietudine che precede e accompagna l’escursione lungo un sentiero, una salita alpinistica o una discesa in scialpinismo.

L’abitudine lo rende quasi impercettibile, ma quello stato di allerta ci accompagna sempre ed è pronto a manifestarsi al minimo inconveniente.

Scegliere di fare una certa escursione è un esercizio di libertà e lo si attua mettendo in campo tutte le proprie risorse emotive e cognitive: ci spingono la fantasia, la passione e il sogno, in un serrato confronto con l’esperienza, la consapevolezza delle proprie capacità e la conoscenza delle difficoltà da affrontare.

Si può essere più o meno prudenti in questo confronto con se stessi, ma, in ogni caso, la scelta che ci porta “là fuori” ci mette in una situazione di rischio, in quanto ci espone ai pericoli di un ambiente dove, chiaramente, la sicurezza non può essere garantita.

Lungo il sentiero ci può cogliere un temporale, una banale scivolata può avere anche conseguenze letali, una salita alpinistica espone ai pericoli di un ambiente che non è esagerato definire ostile e una gita sugli sci o con le ciaspole impone il confronto con quell’elemento mai completamente prevedibile che è la neve.

Esercitare la libera scelta di andare nella natura significa mettersi nelle condizioni di poter subire e/o provocare un danno a se stessi e agli altri.

Questa, però, non è una condizione specifica dell’attività outdoor, ma qualcosa che pertiene a tutta l’esperienza umana.

Non abbiamo forse percepito la stessa inquietudine nei primi giorni di libertà dopo il lockdown, quando abbiamo avuto la possibilità di uscire di casa e abbiamo dovuto decidere se e come “avventurarci” nel mondo esterno a casa, affrontando il pericolo di un virus che sappiamo essere ancora presente?

Forse il maggior contributo che attività come l’escursionismo e l’alpinismo, che spesso vengono definite con ironia “socialmente inutili”, possono dare alla collettività sta proprio nella loro consapevolezza e “confidenza” con l’essenza rischiosa dell’esercizio della scelta e della libertà.

AMBIENTE NATURALE / AMBIENTE CITTADINO – Vale la pena di riflettere sulla distinzione, spesso data per pacifica e acquisita, fra l’ambiente naturale (outdoor) come luogo dell’incertezza e dell’esposizione al pericolo e l’ambiente umano e cittadino (indoor) come luogo dove tutto può essere “messo in sicurezza”, gestito con attrezzature e organizzato in base a procedure che, se ben applicate, possono dare la certezza che andrà tutto bene.

È davvero così?  Quello che è avvenuto con la pandemia di Covid 19 non ci ha forse dimostrato che le cose stanno in modo affatto differente?

Nelle prime settimane di diffusione del virus in occidente da più parti si è sentito evocare il celebre “cigno nero”, esempio paradigmatico dell’evento inatteso, imprevedibile, di ciò che si fa beffa di tutte le certezze e le procedure.

La pandemia e il suo sviluppo hanno imposto alla coscienza collettiva della società ciò che, fino a qualche mese fa, era esperienza possibile solo nel privato: appunto l’imprevedibile, l’irreparabile, ciò per cui non siamo preparati e rispetto a cui non c’è prevenzione o rimedio.

Lo scandalo, l’ineluttabilità della malattia e della morte sono qualcosa che ciascuno di noi, singolarmente, sperimenta e conosce, ma la collettività, almeno fino a prima della pandemia, ne aveva una percezione ben diversa.

Chi, fino all’apparire di questo cigno nero, si sarebbe mai immaginato che una tale tempesta potesse imperversare da un capo all’altro del Pianeta, senza che tutta la nostra scienza e la nostra tecnologia potessero fare qualcosa per arginarla? A fare la differenza nella battaglia ancora non conclusa contro questo mostro non sono state le procedure e le attrezzature.

Basti pensare che, alla fine, l’unica arma di cui abbiamo potuto disporre, assolutamente rudimentale e primitiva, è stata la stessa con cui si combattevano le epidemie ai tempi di Renzo e Lucia o del Boccaccio: l’isolamento e il distanziamento sociale.

L’insegnamento collettivo di questo cataclisma è abbastanza chiaro: non è vero che “qui dentro”, nell’ambiente umano, si può dare una condizione di non esposizione al pericolo.

Non è vero che attrezzature e procedure sono il viatico per la sicurezza assoluta. Anzi, tale supposizione è forse la più grande delle illusioni e il maggiore dei pericoli, perché ci rende ciechi e sordi, come chi finisce in un fosso perché tiene gli occhi fissi sulla mappa piuttosto che guardare il terreno che gli sta attorno.

La mappa non è il territorio e, in caso di discordia fra i due, è meglio, per la propria salute, ricordarsi che è sempre il territorio ad avere ragione…

Questa è una delle consapevolezze più importanti che possiamo trarre dalla frequentazione dell’ambiente naturale.

Se davvero la montagna e la natura, come si suole dire, sono maestre e palestra di vita, questo è l’insegnamento che possono dare e che varrebbe la pena di promuovere e valorizzare: la sicurezza assoluta è una superstizione e la vita, in qualsiasi ambiente e condizione (sia outdoor che indoor) è costante esposizione ai pericoli.

Le attrezzature, le procedure, le regole e i divieti sono solo un ausilio per affrontare siffatti pericoli e non una garanzia di poterli evitare.

Quando il cigno nero compare, quando il pericolo si manifesta, non sono le “calzature idonee” quelle che ci salvano, ma la nostra capacità di decidere cosa è opportuno fare e cosa no, e di farlo guardando al territorio e non alla mappa.

1 commento

C’è ancora bisogno di libertà -
3:46 am, giugno 22, 2020

[…] ancora bisogno di libertà (anche in tempi di cigno nero)di Serafino Ripamonti (pubblicato su trekking.it il 5 giugno […]

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