Ambiente: quel parente di cui ci si occupa solo quando sta male!

19 marzo 2020 - 14:22

Perché dell’ambiente non si sente mai parlare?

Siamo in periodo di campagna elettorale e tutti i mezzi di comunicazione sono costantemente impegnati a riportare dichiarazioni, proclami e promesse delle diverse parti politiche impegnate nella corsa elettorale.

Il rumore non è mai stato così forte, le notizie arrivano ormai da ogni parte, ci sono i giornali e le televisioni con le loro cronache, ci sono gli stessi partiti che si affidano ai loro canali social per lanciare le loro controinformazioni e, soprattutto, ci sono le persone che prendono le notizie, le commentano, leframmentano e poi le rilanciano.

Insomma ogni giorno siamo esposti a migliaia di messaggi e stimoli, si può sentire tutto e il contrario di tutto, in un confronto costante che si gioca sul continuo inseguirsi di proclami e smentite.

C’è un tema però che, tra tutti, non è riuscito mai a fare capolino nel dibattito politico, un tema che dovrebbe invece stare tra i primi punti di ogni programma elettorale, senza distinzioni di ideologie o schieramento.

Stiamo parlando dell’ambiente, una tematica relegata spesso in posizioni di secondo piano, nella migliore delle ipotesi come buon argomento elettorale per fare presa sulle fasce di popolazione sensibili all’argomento per poi essere gettato via subito dopo l’elezioni.

Perchè non riusciamo a preoccuparci per l’ambiente?

Per spiegare questo problema bisognerebbe scomodare l’antropologia, quella disciplina che, semplificando, studia l’uomo, la sua cultura e il suo modo di organizzarsi in comunità.

Un’affermata teoria antropologica ben spiegata dal Prof Marco Aime nel suo “Primo libro sull’antropologia” spiega l’origine dei feticci, dei riti religiosi e di altre manifestazioni umane, chiarendo come il loro fine sia dare corpo e fisicità a idee e concetti astratti che, altrimenti, rischierebbero di essere dimenticati.

Insomma l’uomo ha bisogno di fisicità, ha necessità di una cerimonia che gli ricordi la presenza di Dio, così come ha bisogno di un luogo di “culto” che dia corpo a un marchio, che lo renda visibile e “consistente” proprio come avviene con gli Apple Store.

Vi starete certamente chiedendo cosa ci azzecchino la religione, gli Apple Store e l’ambiente, vi posso dire che c’entrano molto più di quanto non appaia.

Se guardate i fatturati di brand come Apple, vi renderete conto di come la gran parte provenga dalle vendite online e perchè allora dovrebbero investire così tanto per aprire nuovi negozi, con personale specializzato e arredi di design?

Semplice, perché rappresentano dei “luoghi di culto” in cui sono esposti dei feticci, gli iPhone, presentati in teche luminose, sistemate su pavimenti di marmo e legni pregiati, proprio come in una galleria d’arte. Non a caso oggi una delle mete immancabili di un viaggio a New York è proprio la visita all’Apple Store sulla Fifth Avenue.

Abbiamo iniziato collegando la religione con i brand commerciali, ora portiamo finalmente il discorso sull’ambiente. Le aziende come Apple hanno capito bene che luoghi di culto e rituali sono necessari per creare un’immagine forte nelle persone, per questo hanno creato veri e propri mausolei moderni per far “toccare con mano” i loro brand.

Non basta l’alta tecnologia, la perfezione di chip e processori, quello che sta dentro la “scatola” non si vede e non si tocca, quindi non esiste.

Questa premessa, a metà tra il marketing e l’antropologia, è estremamente utile per comprendere un problema endemico della questione ambientale, che la rende un argomento poco adatto al dibattito politico, sociale ed elettorale.

Infatti i cambiamenti climatici, il consumo delle risorse naturali del pianeta, le deforestazioni, l’inquinamento delle acque e tutte le tessere che formano il complesso puzzle dell’ecosistema del pianeta terra purtroppo sono troppo astratti e distanti dal nostro quotidiano per essere percepiti come attuali.

Anche i bambini percepiscono la scarsità di denaro o magari il disturbo che può dare il lavavetri al semaforo, molto meno facile da capire è invece quello che sta accadendo al suolo che ci sorregge, all’aria che respiriamo e al clima che ci fa sopravvivere.

Le popolazioni occidentali, con l’avvento della rivoluzione industriale si sono concentrate nei centri urbani, tanto che in Europa e negli Stati Uniti quasi il 60% della popolazione vive in agglomerati urbani, una percentuali che nel giro di qualche anno potrebbe toccare il 90%.

Questo significa che gran parte dei cittadini hanno perso il contatto con la natura, vivono in ambienti artificiali, fatti di strade e palazzi, in cui il verde è limitato a qualche parco urbano; difficile in queste condizioni rendersi conto di quello che accade all’ambiente.

Ecco una delle principali ragioni della nostra insensibilità ai cambiamenti climatici: non lo viviamo, non lo conosciamo e non percepiamo i mutamenti che ogni anno lo colpiscono, non esistono feticci o riti che gli diano “consistenza”, resta quindi un fatto astratto e lontano dal nostro quotidiano.

Solo i disastri ambientali che ci toccano periodicamente riescono a riaccendere la luce sul problema, ma bastano pochi giorni perché tutto sparisca sotto la coltre di notizie a più alto impatto, con la complicità di una chiassosa e inconsistente comunicazione politica.

Ambiente ed economia: il legame nascosto

In questa complessa vicenda ci sono dei protagonisti che hanno un legame diretto con la questione ambientale, ma preferiscono non farlo sapere rimanendo nell’ombra della loro comunicazione istituzionale.

Sto parlando dei principali attori dell’economia che dominano i diversi mercati, tutte quelle enormi corporation che estendono la loro egemonia in diverse nazioni con delle capitalizzazioni che superano perfino il PIL di diverse nazioni occidentali.

Crescita e sviluppo sono due termini che, quando associati all’economia, ci danno immediatamente una sensazione positiva, non aspettiamo altro che sentire il telegiornale parlare di consumi in crescita e di produzione in aumento, tutti indicatori economici positivi.

 

E’ davvero tutto oro quel che luccica?

Non stiamo parlando di bilanci statali o PIL, sappiamo che per il sistema economico tutto questo è un bene, stiamo parlando piuttosto di costi ambientali come la perdita di biodiversità e il consumo del suolo. Proprio quelle questioni che non riusciamo a percepire immediatamente sulla nostra pelle, ma che potrebbero costare molto più caro di un’inflazione o di una manovra “lacrime e sangue” del Governo di turno.

Stiamo parlando di economia e ambiente, ma della partita fanno parte ancora una volta la comunicazione e i media, perché possiamo sforzarci quanto vogliamo di semplificare il mondo che ci circonda, ma le dinamiche che lo governano restano complesse e per comprenderle è necessario un’analisi che vada un po’ oltre la superficie.

La grande industria si è sempre scontrata con l’ambiente, le aziende chimiche, le acciaierie, le centrali a carbone fino alle grandi corporation petrolifere hanno fatto profitti a scapito della salute pubblica e della natura.

Negli anni ‘90 e 2000 in diversi paesi industrializzati, Italia compresa, abbiamo assistito a disastri ambientali di ogni genere, tanto per fare alcuni esempi possiamo citare il caso BP petrolio con il versamento di greggio nel golfo del Messico, il caso Ilva e l’impatto su Taranto per non parlare di quanto avvenuto con l’amianto nelle zone di Casale Monferrato.

 

Ma come è potuto accadere tutto questo?

La mancanza di un’adeguata consapevolezza scientifica, la disinformazione, il compromesso con le classi politiche sono i fattori che hanno permesso alle aziende di poter operare in contrasto con la salute pubblica un po’ in tutte le parti del mondo.

Il modus operandi delle grandi industrie per diversi anni ha seguito un copione piuttosto consolidato basato su questi due elementi:

  • L’attività di Lobbying: ovvero l’esercizio di un’influenza sulle classi politiche frequentando i palazzi del potere.
  • Il finanziamento di partiti e campagne elettorali.

Le Lobby sono legali e accettate anche in grandi democrazie come quella statunitense, infatti i Lobbisti frequentano il Congresso americano con tanto di registrazione in un apposito registro, nella loro qualità di rappresentanti delle rispettive categorie incaricati di trattare con la Politica.

Diverso è il discorso del supporto ai candidati a ruoli politici.

Le campagne elettorali, specie quelle americane, costano ad ogni candidato decine di milioni di dollari che non si possono reperire facendo ricorso alla sola generosità dei comuni cittadini, ma è necessario trovare qualche “generoso” benefattore disposto ad investire ben più di qualche centinaio di dollari.

Una pratica diffusa che ci aiuta a riflettere su alcune battaglie nostrane, come la cancellazione dei finanziamenti pubblici ai partiti, che meriterebbero riflessioni più approfondite di una semplice boutade elettorale.

La politica costa, e molto, se non ci sono fondi pubblici per candidarsi le possibilità restano due:

  1. Essere tanto ricchi da potersi autofinanziare;
  2. Cercare dei generosi finanziatori che, ovviamente, poi vorranno qualcosa in cambio.

In questo articolo de Le Journal International  sono spiegate bene le origini e l’evoluzione dell’attività delle lobby negli Stati Uniti d’America.

Il nuovo volto delle big company nell’era digitale

La rivoluzione digitale ha mutato profondamente non solo i protagonisti del mercato ma anche il loro modo di comunicare al pubblico, di costruire la propria immagine.

So bene che a questo punto può sembrare che la nostra analisi sia “partita” per la tangente, ma proprio questa percezione dimostra come la comunicazione delle nuove industrie stia funzionando estremamente bene

Facebook, Google, Apple e Amazon sono diventati dei giganti tanto che le loro capitalizzazioni le collocherebbero tra i primi 20 stati al mondo come PIL, senza contare il potere immenso che deriva dalla loro penetrazione nella vita e nell’intimità di miliardi di persone che ne utilizzano piattaforme, prodotti e servizi.

Tutti i servizi di cui usufruiamo gratuitamente, in realtà li paghiamo regalato centinaia di dati sui nostri interessi, le nostre idee, le nostre preferenze preferenze insomma contribuiscono a creare una nostra seconda identità digitale custodita dai server di queste corporation per rivenderla ad inserzionisti pubblicitari.

Queste aziende, così come quelle che utilizzano i loro dati per fini pubblicitari, sono diventati dei veri maestri della comunicazione e della narrazione, che utilizzano con l’unico fine che gli interessa davvero: il profitto immediato.

Arriviamo al punto, i nostri dati più il sapiente uso dello storytelling pubblicitario hanno l’effetto di riuscire a creare dei mondi narrativi perfetti, in cui queste grandi compagnie perseguono la missione di creare prodotti e servizi che aiutano il mondo a diventare un posto migliore.

Pensiamo a Facebook con il suo famoso “to make the world more opened e connected”, oppure il “Think Different” di Apple, tutti slogan che ci rassicurano, che ci rendono partecipi di una missione, che mostrano con forza la missione di queste aziende di cui ci fidiamo tanto, più che del nostro Governo o del nostro Sindaco, più dei giornali e della televisione, aziende che diventano nostre complici quotidiane.

La realtà dei fatti ci mostra però una storia diversa, l’attuale crisi socio-ambientale è conseguenza diretta della società dei consumi che, con l’avvento dei nuovi media digitali, sta diventando ancora più estrema con i grandi brand che riescono ad entrare nel nostro quotidiano attraverso i nostri smartphone.

Nell’interessante saggio “Propaganda Pop”  Davide Mazzocco spiega bene il legame tra il monopolio della tecnocrazia e il cambiamento climatico, e completa bene quanto abbiamo detto fino a questo punto.

Infatti lo strapotere del big company tecnologiche, la diffusione dei social media e dei dispositivi digitali, sono riusciti ad allontanare l’uomo dalla natura, sostituendola con una sua idealizzazione.

Insomma quello che accade alle persone, ovvero la creazione di una seconda identità digitale, è accaduto anche per la natura, meravigliosa e in salute nelle narrazioni pubblicitarie, aggredita e violentata nel quotidiano dallo sfruttamento che ne fanno le multinazionali per le filiere produttive.

Realtà o finzione?

Mentre davanti ai nostri occhi si presentano con la facciata linda e pulita, alle nostre spalle l’economia e la tecnologia continuano sfruttare l’ambiente solo ed esclusivamente per perseguire il profitto a breve termine, senza badare troppo ad altre questioni.

Infatti tutti i nostri prodotti elettronici come smartphone, computer, tablet, fotocamere e perfino i server sui quali le big company conservano i nostri dati, sono fatti da circuiti elettrici che per essere costruiti hanno bisogno di materiali che si estraggono da miniere che, guarda caso, si trovano nella cara mamma Africa.

In tutto il continente negli ultimi anni si sono moltiplicate a dismisura le miniere per l’estrazione di questi materiali.

Il Governo del Congo ha un ministero che “vigilia”  all’estrazione mineraria, in questo Stato abbondano infatti le riserve di Coltan, minerale essenziale per i circuiti elettrici, nelle quali sono impiegati migliaia di lavoratori che lavorano in condizioni rischiose e con paghe ridicole.

Questo è solo un primo effetto di questa nuova tecnocrazia in cui le aziende produttrici di device tecnologici ne programmano la durata, facendo in modo che le prestazioni si deteriorino nel giro di pochi mesi, obbligando i consumatori alla loro sostituzione così che si possa mantenere vivo il mercato.

Apple e della Samsung, per citare le più note, ogni anno lanciano un nuovo modello di dispositivo, queste compagnie dall’alto del loro immenso potere comunicativo, sono riuscite a mutare gli stessi paradigmi del consumo.

Negli anni ‘80 le persone compravano quello di cui (pensavano) di aver bisogno e volevano prodotti robusti e duraturi, oggi le tech company hanno trasformato ogni prodotto in un’affermazione identità destinato a durare il tempo di una moda, per poi essere sostituito ed alimentare il mercato.

Insomma questi nuovi oggetti di culto hanno premuto con forza sul pedale del consumo, portando la società ad un nuovo livello, in cui beni che sostanzialmente

Dalla narrazione pubblicitaria a quella politica

Non siamo sprovveduti, sappiamo bene che le grandi multinazionali hanno come principale, se non unico, obiettivo quello di massimizzare i profitti e l’ambiente gli interessa solo per avere un ritorno d’immagine, altrimenti si sentono libere di calpestarlo in favore dei loro interessi.

Le cose dovrebbero essere diverse però quando si parla di politica, infatti uno dei compiti principali di ogni persona che voglia ricoprire un incarico di governo dovrebbe essere quello di prestare attenzione alla res publica, prendersi cioè cura dei beni e degli interessi comuni della nazione e dei cittadini.

Tra questi, le questioni ambientali e climatiche dovrebbero essere messe al primo posto dell’agenda politica, infatti il cambiamento in atto ha conseguenze su molte questioni cruciali per il nostro paese.

L’area del Mediterraneo è una delle più sensibili ai possibili cambiamenti climatici futuri.

I più recenti modelli creati dagli scienziati prevedono un riscaldamento molto maggiore della media globale (specialmente in estate), un sensibile aumento delle ondate di calore, ed una marcata diminuzione delle precipitazioni, oltre ad un aumento del livello dei mari e una tendenza sempre più marcata alla desertificazione.

Questi eventi hanno un lunga serie di conseguenze a cascata come il calo dei rendimenti dell’agricoltura, la perdita della biodiversità e l’ulteriore incremento del rischio di incendi boschivi.

Non è difficile immaginare come tutto questo avrà impatti importanti sul tessuto economico di un paese che fa della produzione agroalimentare uno dei suoi punti di forza.

La politica continua a non occuparsi della questione nonostante in questi anni eventi come alluvioni, bombe d’acqua, picchi d’afa e incendi abbiano già reso visibili gli innalzamenti delle temperature, lo scioglimento dei ghiacciai alpini e la galoppante desertificazione del territorio.

Si è stimato che dal 1980 al 2013 i cambiamenti climatici siano costati all’Italia oltre 60 miliardi di euro, ma l’aspetto economico non è nemmeno quello più preoccupante, infatti questi mutamenti climatici sono costati delle vite umane, oltre 91000 morti premature l’anno per patologie legate all’inquinamento atmosferico, oltre 3600 morti dal 2010 ad oggi solo per disastri ambientali, una strage silenziosa.

Non abbiamo parlato a caso del bacino del mediterraneo, il prossimo Governo ha un motivo in più per mettere al centro del suo programma il clima, infatti gli effetti del riscaldamento terrestre come la desertificazione e la perdita di biodiversità si espanderanno verso quelle regioni che attualmente godono di un clima temperato come, ad esempio, le aree a nord e a sud del deserto del Sahara,  provocando gravi danni per l’agricoltura.

Le colture subiranno un calo e aumenterà il numero di persone a rischio denutrizione, questo provocherà un deciso incremento dei migranti climatici che andrebbero a ingrossare gli attuali flussi migratori, spesso si sottovaluta il ruolo del clima nello scacchiere internazionale.

Insomma non voglio dilungarmi oltre è già chiaro come il cambiamento climatico sia già oggi, e non domani o dopodomani, un problema che si fa ogni giorno più grande. Nonostante questo però nessuna delle forze politiche in competizione ha messo la questione climatica al centro del proprio programma.

Ma perché mai non si vuole affrontare questo importante tema?

La risposta è semplice, non fa presa sulla gente che, almeno nel breve periodo di una campagna elettorale, non lo può toccare con mano e quindi non gli fa così effetto.

Già, quello che si dice deve fare effetto, perché l’arte della narrazione, o storytelling, non è un’esclusiva delle grandi aziende, o almeno non più, la politica ha capito nel giro di pochi anni la potenza di questo strumento per accaparrarsi voti e lo ha adottato con grande maestria.

In questa campagna elettorale i candidati premier si trasformano in personaggi di un grande romanzo, in condottieri che si scontrano con degli avversari, gli altri partiti, nel ruolo di antagonisti e che si pongono l’obiettivo di superare ostacoli e di combattere i cattivi per raggiungere il loro obiettivo, salvare l’Italia, con il supporto di un aiutante, gli Italiani, e di un oggetto magico, il loro voto.

In questo modo le persone votano un leader e un partito non perché ne condividono le idee, ma perché si affezionano e immedesimano, proprio come si fa con il protagonista di un romanzo.

Anche se non è proprio pulito, anche se non ha un gran programma, comunque ci ricorda qualcosa di noi e per questo ci fa simpatia e lo votiamo.

Capite bene che per rendere la storia credibile ogni leader si deve creare il suo mondo narrativo fatto di nemici e antagonisti, più o meno reali. Ne è un esempio lampante la costante battaglia all’immigrazione, un NON problema come confermato dai date e, in ogni caso, un problema certo meno urgente del cambiamento climatico che probabilmente, ne è perfino una delle cause.

Ma l’immigrato che compie un reato, che delinque è molto più tangibile nella costruzione di una narrazione rispetto al clima o l’ambiente, “l’uomo nero” è facile da vedere e combattere, la CO2 invece è molto più invisibile, per non parlare delle microscopiche polveri sottili che soffocano la pianura padana, difficile prendersela con loro, nemmeno si vedono.

Ma cosa importa alla fine, meglio prendersela con chi attraversa il mediterraneo sul barcone per rubare o con l’islamico che vuole diventare terrorista, anche se poi non è vero, in ogni caso è certamente più facile che prendersela con polveri che sono più piccole di un millimetro, peccato però che uccidano 90.000 persone all’anno.

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