Cognetti e la depressione: “Il mio TSO, legato mani e piedi”

Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega 2017 con "Le Otto Montagne", racconta l'esperienza della depressione e quella del ricovero in un reparto psichiatrico. Ma anche la speranza di uscirne e la passione per la montagna

22 dicembre 2024 - 17:13

Cognetti: la depressione e il TSO, la solitudine in montagna e il reparto di psichiatria

Due TSO in un anno, l’ultimo per due settimane nel reparto di Psichiatria del Fatebenefratelli di Milano.

Per Paolo Cognetti, l’autore del bestseller Otto Montagne e vincitore del Premio Strega nel 2017, sono stati giorni e mesi duri.

Lo ha rivelato in una intervista a Repubblica e il racconto è lucido e drammatico allo stesso tempo.

Le porte dell’inferno si sono aperte per lo scrittore una decina di giorni fa, ma malattia lo lavorava ai fianchi da tempo.

In primavera ed estate l’autore racconta di essere stato “morso dalla depressione”, con un primo ricovero.

Il suo amato rifugio in Valsesia, all’ombra del Monte Rosa, gli aveva fatto ritrovare energia e tranquillità.

Natura, montagna e solitudine, sentiva, lo avevano salvato.

Poi, il crollo.

Un giorno mi sono accorto – ha dichiarato – che il mio pensiero e il mio linguaggio acceleravano. Gli amici mi hanno fatto notare che facevo cose strane. Il 4 dicembre il medico ha disposto il Tso“.

Ma quali cose strane?

Nelle fasi maniacali si può perdere il senso del pudore, o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi. Si sono allarmati tutti: c’era il timore, per me infondato, che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri“.

La prigione della follia e quella dell’ospedale

Il racconto dell’esperienza in Psichiatria è drammatico.

I ricordi come pugnalate: l’auto della polizia e l’ambulanza sotto casa, nessuna possibilità di scelta.

Poi, il trasporto nel girone della sofferenza, in ospedale.

Ero legato al letto mani e piedi” – racconta – “con una siringa in una gamba. Ventiquattr’ore al giorno in un corridoio di trenta metri con le stanze ai lati. Finestre tutte sbarrate, non un terrazzo né un cortile. La terapia in teoria puoi rifiutarla ma se lo fai passi da paziente volontario a paziente tso, per cui devi prendere tutto quello che ti danno. Risultato: la maggior parte dei pazienti dorme tutto il giorno“.

Poi il trattamento d’urto finisce e non resta da fare altro che camminare.

Camminare e fumare, fumare e camminare, in quel corridoio affacciato sul dolore di tante persone.

Non sono mai stato in carcere – continua – ma non credo sia tanto diverso. Tanti altri vengono trattati così, ma se lo raccontano non c’è nessuno che li ascolta”.

 

Il ritorno a casa, la speranza e ancora la montagna

Una volta a casa è tempo di interviste a quotidiani e televisioni.

I media fanno la coda per raccontare la storia del Premio Strega nella prigione della malattia mentale.

E Paolo si presenta a taccuini e telecamere con un nuovo look: niente barba e capelli rossi.

È il colore che avevo da bambino, forse un desiderio di rinascita dopo quello che ho vissuto“.

La memoria torna alla scelta di rifugiarsi in montagna, un periodo di serenità, all’inizio, lavorando due anni come cameriere.

Poi, dopo che ho cominciato a camminare e a scrivere, l’umanità della montagna mi ha respinto“.

E quando il male oscuro arriva, anche la solitudine in quota perde il suo potere terapeutico.

Il bosco è tornato solo un bosco, un torrente solo un torrente, perfino un albero non mi ha detto più niente“.

Eppure lo sguardo di Cognetti è ancora rivolto alle montagne, anzi alle vette più alte del mondo.

Tornerò in Nepal”.

Nei programmi per i prossimi mesi: un documentario nel Mustang, un corso di scrittura a Marrakech e lo sviluppo di un romanzo iniziato proprio in ospedale.

Perché il dolore va raccontato.

Depressione e disagio psichico “sono un fiume carsico in piena“, mentre tutti “siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia“.

Eppure, dice Paolo, per essere felici non occorre moltissimo.

Vorrei avere cinque o sei amici sinceri” – conclude. “E poi essere libero, con un’agenda sempre vuota per i successivi sei mesi. Riuscire a godermi il pianeta, rifugiandomi negli ultimi luoghi rimasti originari. Alla fine anche per me è vivere la cura per riuscire a vivere“.

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