Yemen, isola di Socotra: un paradiso terrestre dalla storia antica

Un viaggio a Socotra nel periodo del monsone, quello dei grandi venti che rendono il mare intorno all’isola impossibile da navigare, che spesso impediscono agli aeroplani di atterrare e che, nella storia e nella leggenda hanno fatto di questa terra uno dei luoghi più isolati e irraggiungibili del pianeta

22 gennaio 2023 - 5:45

Terra di ricchezza antiche

A 250 chilometri dal Corno d’Africa, a quasi 400 dalle coste d’Arabia, unico luogo di sosta lungo le grandi rotte di navigazione dall’India verso il Mediterraneo, multiculturale porta d’ingresso al Mar Rosso, l’isola di Socotra, la più grande di un arcipelago formato di cinque isole.

L’isola fiorì anticamente come snodo commerciale dove vivaci comunità poliglotte di mercanti di molte razze gestirono per secoli scambi e merci, accumulando fortune.

Socotra era ricoperta di alberi che stillavano incenso e mirra, offerti in abbondanza agli dèi pagani, indispensabili nel rituale della mummificazione al tempo dei faraoni.

Durante l’Impero Romano tanto questi prodotti erano annoverati tra i beni di importazione esenti da dazio.

Poi il misterioso “sangue di drago”, utilizzato dai gladiatori nel Colosseo per ricoprirsi il corpo prima della lotta e molti secoli dopo dai maestri liutai di Cremona per nutrire il legno dei violini Stradivari.

E ancora di carnose piante di Aloe socotrina, unica medicina universalmente conosciuta nel mondo antico, tanto da indurre Aristotele a consigliare ad Alessandro Magno di conquistare l’arcipelago per avere il controllo della sua coltivazione

Il lungo isolamento ha favorito la conservazione di piante “fossili”, di relitti botanici, appartenenti ad altre ere geologiche.

Nel 2008 l’Arcipelago è stato dichiarato riserva mondiale dell’umanità e della biosfera ed attualmente è al quinto posto sul Pianeta per endemismo botanico.

 

Uomini dalle mille origini

L’isola è abitata da un popolo dalle origini antiche e diviso in un centinaio di tribù.

Un sangue misto di Indiani, Africani, Arabi, Greci e Portoghesi, che parlano una lingua di origine sud-semitica senza scrittura: le loro origini si vedono nel colore degli occhi, nei tratti del volto, nel tipo di capelli e nel colore della pelle.

Marco Polo nel “Milione” scrisse che gli abitanti di Scara – così veniva anticamente chiamata l’isola – erano cristiani, battezzati e sottoposti al vescovo di Baldac (si riferisce ai cristiani nestoriani e al vescovo di Baghdad), mangiavano riso, carne e latte ed erano i migliori incantatori che ci fossero al mondo.

La leggenda narra che le donne di Socotra riuscissero con il loro canto ad ammaliare i naviganti, proprio come le sirene di Ulisse, e che per questo nel mare che lambisce la costa Est, la più difficile da attraversare, avvenissero numerosi naufragi.

L’isola dei venti

Programmo il viaggio per il mese di agosto con la consapevolezza che potrei anche non arrivare nell’isola per giorni.

In volo verso Mukalla, direzione Sud-Est, posso vedere dal cielo il grande Wadi Hadramawt, polveroso e arido, che ai miei occhi sembra l’articolato e straordinario “sistema circolatorio” della Terra.

A Mukalla l’aeroplano si svuota, non sale nessuno, ripartiamo per Socotra in dieci passeggeri: io, i tre viaggiatori che sto accompagnando e sei socotrini, tutti maschi, dall’inconfondibile naso dei “bedu” delle montagne.

Il Mare Arabico è in piena convulsione acquatica, completamente sgombro di navi nelle sue acque scure.

L’aeroplano lentamente si abbassa sul mare agitato e spumeggiante; osservo la costa nord, la falesia massacrata, la piana costiera e le guglie appuntite dell’Haggeher, le bellissime e misteriose montagne di Socotra, sempre immerse nella foschia o avvolte da nuvole bianche e dense.

Nel 1903 H.O.Forbes, dopo averle viste per la prima volta, scrisse:

“Si pensa che le cime di queste isole siano tra quelle che, sulla superficie terrestre, hanno tenuto sempre le loro teste sopra il mare; picchi e pinnacoli, detriti e deterioramento ci indicano la loro età.

Sono state mute testimoni dell’inabissarsi di molte terre attorno a loro e dell’emergere dall’Oceano delle imponenti catene montuose dei due continenti che ora guardano e delle cui vicissitudini sono state parte”.

Solo uscendo dall’aeroplano capisco la potenza del vento, un impatto violento con un “muro” d’aria calda e umida; barcollo e devo fare attenzione per non perdere l’equilibrio camminando sulla pista.

Impossibile tenere gli occhi aperti senza proteggerli. Nell’unica sala dell’aeroporto di Hadiboh, la “capitale” di Socotra, nessuno aspetta nessuno; sole presenze alcune capre dal pelo arruffato in cerca di cibo.

Durante la stagione dei grandi venti, da quando aerei più piccoli e con stive meno capienti collegano l’isola al continente, non è facile trovare cibo fresco.

A Socotra non si coltiva nulla a parte le palme da dattero e qualche vegetale nei rari e timidi tentativi di orti familiari; il pesce, normalmente abbondante e di tantissime qualità, in questo periodo è poco, nonostante il mare intorno a Socotra sia tra i più pescosi del mondo.

La carne è di capre che da mesi sono in “riserva” anche se il suo gusto speciale di piante aromatiche è famoso in tutta la Penisola Arabica.

Lungo la strada lastricata di plastica del suq di Hadiboh, tutti i piccoli empori offrono le stesse cose e solo quello che serve ogni giorno: la totalità dei prodotti è importata da paesi di tutto il mondo.

Quello che non si trova viene dal mercato di Al-Qa, il vecchio quartiere ebraico di Sana’a e portato con me dal continente.

Prima di “entrare” nelle montagne, percorrendo la strada che costeggia un mare infuriato e completamente ricoperta di sabbia bianca a causa del vento, ritorno a Riy Di Irisseyl, il villaggio più a oriente sulla costa nord.

Da qui mi piace immaginare come le bellissime donne dell’isola tentassero i naviganti con il loro canto.

In realtà sembra che Socotra non sia mai stata segnalata a chi era in mare e in questo punto la barriera corallina è meno profonda…ecco, forse, la causa di tanti naufragi!!

Penso ai Portoghesi che riuscirono a superare questo tratto di mare, a gettare l’ancora alla fonda e a raggiungere la costa di Socotra per coronare il sogno di conquistarla, averne il controllo e sbarrare Bab el-Mandeb, la “Porta del pianto” o “Porta della lamentazione” che si apriva sul Mar Rosso.

Costruirono una chiesa per ringraziare il Padre Eterno di averli fatti arrivare vivi; i resti sono in un villaggio poco distante da Hadiboh.

Le barche sono a riva, legate tra loro e zavorrate con enormi pietre, i motori protetti con coperte colorate; tutto intorno un tappeto bianco e croccante di vertebre, teste e lische di pesce di ogni tipo e grandezza.

Non ci sono uomini a Ry di Irisseyl, solo donne e bambini: nella stagione dei monsoni trovano lavoro in continente e tornano solo quando i venti si sono calmati e il mare ritorna navigabile.

Nelle notti trascorse nella casa socotrina di Hadiboh mi difendo come posso dal vento che vuole ad ogni costo entrare nell’unica stanza: blocco finestre e porta con enormi e pesanti conchiglie.

Non ha i muri fatti di blocchi di corallo come quelle della vecchia e bellissima Hadiboh, ma la struttura è delle case tradizionali.

 

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