Mongolia: un mondo oltre il nostro mondo

22 maggio 2020 - 14:00

Giorno 5 – Per due notti dormiremo qui, nell’insediamento degli Tsataan.

Sulla guida ho letto che questo è uno dei sei luoghi più inospitali del pianeta. Il perchè non è difficile da immaginare. Inverni rigidi, venti che soffiano incredibilmente forti dalla Siberia, poca elettricità, niente acqua corrente, branchi di lupi e orsi come vicini di casa .. direi che basta.
Eppure subisco il fascino di questo posto e della sua gente, che mi ha stregata.

Un popolo che resta gentile nonostante la fatica quotidiana, con un grande senso dell’ospitalità e dai tratti somatici peculiari e bellissimi. Forse perché si trovano proprio al centro del continente asiatico, il loro viso è un autentico meltingpot.

Il colorito è più scuro del nostro ma non ancora “giallo”, il taglio degli occhi è orientale ma le labbra sono spesso carnose, hanno visi di diamante con zigomi accentuati e pelle spessa come gli inuit e tutte le popolazioni temprate dal gelo.

La loro è una storia di ostinazione e sopravvivenza, il nome la riassume: Tsaa significa “renna” e Tan “appartenenza”. Sono stati battezzati così dai sovietici, in senso spregiativo, che ne volevano evidenziare la selvaggità e che hanno tentato con ogni mezzo, ivi compresa la forza, di civilizzarli, costringendoli ad abbandonare il nomadismo.

Li volevano sedentari e per questo hanno costruito dal niente il centro abitato di Tsagaannuur – dove avrebbero dovuto lavorare nelle fabbriche del pesce, sfruttando le risorse ittiche del lago. Piuttosto che piegarsi al volere altrui, alcuni si sono lasciati morire nelle acque gelide del lago, altri sono scappati nei boschi di larici dove i sovietici non li avrebbero seguiti, perché non sarebbero stati in grado di sopravvivere.

È quindi soltanto grazie al loro orgoglio che oggi continuano a vivere secondo il proprio sentire e le proprie tradizioni. Continuano ad usare un dialetto turco-altaico, con ogni probabilità una delle lingue meno parlate nel mondo dato che non sono più di 250 persone.

Abitano nelle urtz, più simili alle tende degli indiani d’America, in cui ogni elemento che le compone è un simbolo sacro: la stufa rappresenta il fuoco, il bollitore (sempre acceso) l’acqua, il pavimento qui privo di copertura (e quindi gelato) – la terra, il foro del cono in alto l’aria, da cui si può vedere tengher – il cielo.

Quando arriviamo è ormai buio e veniamo accolti nella tenda del capofamiglia, dove ci viene subito offerto da bere qualcosa di caldo, che è maleducazione rifiutare.

Il galateo mongolo vorrebbe che la tazza (più che altro una scodella) venisse raccolta con due mani e portata subito alle labbra, senza appoggiarla. Seguo le regole, ovviamente, e mando giù un sorso di quella che è la loro bevanda tradizionale: un misto di latte fermentato, thè e sale (non la trovo buona ma non ho il cuore di dire di no).

Mentre scrivo, so che l’accampamento non esiste più: i primi di gennaio sapevano già che a fine mese – quando le renne avrebbero ormai esaurito i licheni ed il terreno non sarebbe più stato buono per il pascolo – avrebbero dovuto spostarsi più a nord. Dalla sopravvivenza degli animali dipende quella delle persone, per cui la scelta è obbligata.

Quando usciamo per andare a riposare, mi sento seguita. Nel buio mi volto e per lo spavento (temo di incontrare i lupi) faccio un salto che finisce in una risata incredula: gli occhi che brillano nel buio sono quelli di una renna, e subito dietro ne spuntano altre. La guida mi porta del sale fino di cui le renne sono ghiotte e che senza timore mangiano direttamente dalle mie mani.

La nostra tenda è piccola – dispongo del minimo spazio vitale – e piena di spifferi. Mi preparo per la notte: completamente vestita mi infilo dentro a due sacchi a pelo, sotto una coperta, mi proteggo il viso con passamontagna e colbacco e metto adesivi caldi su piedi e nuca.

So che quando si spegnerà il fuoco non ci sarà più molta differenza tra dentro e fuori, e infatti al risveglio trovo tutto congelato: salviette, bocce d’acqua da 5 litri, coca cola, olio idratante. L’unico modo per avere l’acqua per lavarsi i denti appena svegli è tenere una bottiglia dentro al sacco a pelo.

Quando esco dalla tenda l’alba è arancio e rosa acceso. Gioco con i cuccioli di cane mentre aspetto la colazione, poi con la guida ci addentriamo nel bosco, per raggiungere le renne al pascolo.

Passeggiamo per circa 45 minuti: tanto basta per ricoprire il mio colbacco di ghiaccio e sentir gelare i piedi, a cui perdo la sensibilità. Ho l’affanno e non capisco perché, poi ricordo che mi trovo a 2000 mslm e il termometro segna meno 22.

Quando troviamo le renne, ci sediamo in mezzo a loro nella neve e accendiamo un falò per riscaldarci. Il capo tribù – nel rispetto della natura – raccoglie soltanto arbusti secchi e rami spezzati per alimentare il fuoco, che in un attimo crea una magia: le scintille illuminano come piccole lucciole l’aria e la neve, già brillante per il riflesso del sole, luccica. Intorno a me – nel silenzio riempito soltanto dallo scoppiettio del legno che arde – tutto splende. Lo conservo come uno dei ricordi più belli.

Nel primo pomeriggio la guida ci accompagna per una passeggiata tra i larici in sella alle renne. Sono animali mansueti e non molto alti, per cui non ho paura e mi godo il giro. Al rientro, i bambini hanno allestito per noi un piccolo negozio di artigianato, stendendo a terra un panno: qualche braccialetto fatto con ossa di renna, corna intagliate con disegni raffiguranti scene di vita quotidiana e poco altro.

Ovviamente contribuisco al bilancio del negozio acquistando almeno tre articoli. Per cena siamo ospiti nella tenda di Uvgudarj e di sua moglie Daarimaa. Con loro ci sono i nipoti Undarmaa, una bambina di 8 anni il cui nome significa “cascata” e Uuganaa, un bambino di tre anni il cui nome significa “gioia”

Hanno cucinato per noi uno stufato di renna con pasta fatta in casa. Ci tratteniamo anche dopo cena, cercando di partecipare alla conversazione con l’aiuto della guida. Un famoso proverbio mongolo recita: “all’ospite si offrono sorrisi, non domande”. Ne ho ricevuti di bellissimi: sono stata guardata da queste persone semplici con una curiosità sempre discreta e con una gentilezza spontanea e mai forzata.

È facile qui, dove le tende non hanno porte da chiudere a chiave e tutto è condiviso, avere fiducia, lasciarsi andare, farsi coinvolgere.
Domani partiamo verso il lago Khosvgol e ho già la malinconia di questa bellezza.

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