Donne e montagne: storie di coraggio e libertà sulle vette trentine

Dalla gestione dei rifugi all’alpinismo pionieristico, le donne trentine hanno lasciato un segno indelebile sulle montagne. Ecco alcune delle loro più celebri imprese tra rocce, neve e libertà.

8 marzo 2025 - 9:00

Storie di alpiniste, rifugiste ed esploratrici che hanno aperto la strada alle donne

Salire, passo dopo passo, fino alla cima. Sentire i muscoli in fiamme, il fiato corto, il sudore sulla pelle. L’alpinismo è conquista, emancipazione, libertà. Lo era ieri, quando le prime donne sfidavano il pregiudizio per scalare le montagne, e lo è ancora oggi.

Per loro, la montagna era uno spazio di affermazione, un luogo dove essere finalmente padrone del proprio destino, lontane dalle convenzioni sociali che le relegavano a ruoli prestabiliti. Ogni vetta raggiunta non era solo una sfida superata, ma un simbolo di indipendenza e coraggio.

Questa è la storia di alcune di loro.

Pioniere delle terre alte

“Cosa ci guadagni ad andare in montagna per fare tutta quella fatica?”

Una domanda che, forse, venne rivolta anche a Maria Piaz, sorella del leggendario Tita Piaz. Per capire il contesto in cui si mossero queste donne, bisogna fare un passo indietro nel tempo, quando l’alpinismo era un’attività riservata agli uomini e ogni tentativo femminile veniva considerato un’eccezione, se non addirittura una stravaganza.

Nel XIX secolo, le donne che affrontavano la montagna dovevano adottare accorgimenti pratici, come suggerito dall’inglese Henry Warwick Cole, che consigliava vesti comode, anelli cuciti negli orli per sollevare le gonne ed evitare di inciampare sui sassi. Ma il vero ostacolo non era l’abbigliamento: era il pregiudizio.

L’idea che una donna potesse affrontare il freddo, la fatica e i rischi della montagna era considerata impensabile.

Eppure, alcune pioniere infransero le convenzioni. Marie Paradis, cameriera di Chamonix, nel 1808 divenne la prima donna a salire sul Monte Bianco, accompagnata da guide e portatori.

Trenta anni dopo, la nobildonna Henriette d’Angeville compì la stessa impresa senza aiuto, dimostrando che l’alpinismo femminile non era un’eccezione, ma una realtà in crescita.

Eugenie de Beauharnais, figliastra di Napoleone, trovò nella montagna un rifugio personale, un luogo di guarigione per la sua depressione. Nel 1910, l’alpinista e attivista Annie Smith Peck raggiunse una vetta peruviana piantando uno stendardo con la scritta “Votes for Women!”, facendo della montagna non solo una sfida fisica, ma un mezzo di lotta politica.

Le alpiniste e rifugiste trentine

Anche sulle Dolomiti trentine, tra fine Ottocento e inizio Novecento, le donne iniziarono a conquistare pareti e vette, non solo come scalatrici ma anche come custodi dei rifugi di montagna. La costruzione di queste strutture era in pieno sviluppo, grazie alla crescente popolarità dell’escursionismo.

Le rifugiste, con il loro impegno, divennero figure centrali della vita d’alta quota, affrontando con tenacia le difficoltà della gestione in ambienti impervi e isolati.

_ Caterina Decarli e il Rifugio Tosa Pedrotti: nel 1910 la SAT affidò la gestione del Rifugio Tosa a Caterina Decarli, in un periodo in cui le strutture alpine erano terreno di scontro tra associazioni italiane e pangermaniste.

La sua straordinaria efficienza e determinazione resero il rifugio un punto di riferimento per gli alpinisti, tanto che la SAT le chiese di proseguire la gestione per diversi anni. Non era solo una questione di ospitalità: la sua presenza rappresentava un atto di resistenza culturale in un periodo di forte tensione politica.

Le sfide quotidiane erano molteplici, tra rifornimenti difficili da trasportare, condizioni meteorologiche avverse e la necessità di garantire sicurezza e conforto agli escursionisti.

_ Nella Detassis e il Rifugio Brentei: triestina di nascita, Nella Detassis (1909) eccelleva nello sport: sciatrice agonista, parlava tre lingue, appassionata di botanica e arte. Scoprì l’arrampicata grazie al marito Bruno Detassis, con cui si trasferì a Madonna di Campiglio.

Nel 1949 assunse la gestione del Rifugio Brentei, mentre Bruno si dedicava alla professione di guida alpina. Nella divenne l’anima del rifugio, accogliendo e sostenendo generazioni di scalatori. Oltre alla gestione pratica della struttura, era punto di riferimento per chiunque cercasse consigli sulle vie di arrampicata o un rifugio sicuro nelle condizioni meteorologiche avverse.

La sua presenza costante fece del Brentei un luogo iconico per l’alpinismo sulle Dolomiti di Brenta.

_ Maria Piaz e il Rifugio Maria: Maria Piaz, “la madre del Pordoi”, nacque a Pera di Fassa nel 1877. Ribelle e determinata, si unì a una compagnia teatrale, sfidando le convenzioni. Fu la prima donna della Val di Fassa a separarsi dal marito, segno di una straordinaria indipendenza.

Scoprì il Passo Pordoi durante una salita col padre e ne rimase affascinata. Con pochi risparmi, vi avviò una piccola attività di ristoro, che crebbe fino a diventare il Rifugio Maria.

Internata nel campo di Katzenau durante la Prima Guerra Mondiale per aver aiutato due irredentisti, visse sulla propria pelle le conseguenze delle sue scelte di libertà e giustizia. Negli anni ’60 fu tra le promotrici della funivia dal Passo al Sass Pordoi, una sfida ingegneristica e finanziaria che rivoluzionò l’accesso alla montagna.

Il suo spirito visionario contribuì a rendere il Pordoi una meta accessibile e frequentata da appassionati di montagna di tutto il mondo.

Se le chiedessimo oggi cosa la spingesse a osare tanto, forse risponderebbe con la sua frase più celebre: “L’é dut nia’”. Nulla conta, se non la libertà di seguire la propria strada. E forse, proprio questa libertà è il dono più grande che queste donne di montagna ci hanno lasciato.

 

 

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