Escursionismo estivo: perché è importante contenere la percezione del caldo

Come si sa, con l'avvicinarsi dell'estate le temperature sono destinate ad elevarsi progressivamente, così come l’impatto della luce solare e, soprattutto se a bassa quota, l’umidità e l’afa

22 giugno 2022 - 7:44

Non di rado questi aspetti destano preoccupazione fra gli escursionisti e a volte qualcuno sospende l’attività in estate.

In effetti camminare per ore sotto il sole o lungo sentieri poco ombreggiati, percorrere salite impegnative quando fa caldo può risultare ancora più faticoso, al punto da scoraggiarci fino a farci desistere.

Scopo del presente articolo è fornire qualche spunto di riflessione su come contenere la percezione del caldo, per continuare a godere il più possibile di buone esperienze e mantenere quindi l’aderenza all’attività escursionistica anche nei mesi estivi.

Nel fare ciò il riferimento è a uno studio del 2019 di Van Cutsem e collaboratori (1), che ci illumina sull’importanza delle variabili psicologiche rispetto agli effetti del caldo sulla prestazione di resistenza.

L’escursionismo infatti è un’attività motoria di resistenza che, nello specifico, si svolge in ambiente naturale.

In quanto attività di resistenza vi è implicata la tolleranza all’esercizio, cioè la capacità dell’organismo di sostenere un esercizio muscolare generalizzato in condizioni aerobiche, per un tempo protratto.

É noto che la prestazione di resistenza viene compromessa dal clima caldo.

Noi escursionisti sappiamo che, se accaldati, la stessa salita, già percorsa con una temperatura più bassa, potrebbe risultare molto più impegnativa, tanto che a un certo punto potremmo avere difficoltà a proseguire nel compito, costretti a rallentare o addirittura a fermarci.

 

Ma perché ciò accade?

I fattori implicati potrebbero essere molteplici. In primis, le alterazioni fisiologiche indotte dal caldo, in particolare a livello cardiovascolare, metabolico e termoregolatorio.

Esse determinerebbero un disagio riscontrabile a livello corporeo. Inoltre anche il “disagio termico soggettivo” avrebbe un impatto.

In questo caso si tratterebbe di un disagio le cui caratteristiche sono: sensazione di caldo, discomfort termico ed una più elevata percezione dello sforzo.

Dunque avremmo a che fare con un’esperienza soggettiva inerente la percezione del caldo, cioè con un processo che si innesca, sì, a partire da sensazioni corporee, ma che poi si integra con aspetti principalmente psicologici.

Perciò, non solo variabili fisiologiche, ma anche psicologiche potrebbero spingerci a rallentare o a fermarci, in condizioni di clima caldo.

 

Quanto influisce la percezione del caldo?

Ma quanto influisce la percezione del caldo, e non tanto l’essere effettivamente accaldati, sulla nostra prestazione? E perché la peggiorerebbe?

Van Cutsem e colleghi ci aiutano a rispondere. Nel loro studio, infatti, per due volte, dodici ciclisti dovevano pedalare sempre alla stessa velocità per il maggior tempo possibile.

La differenza fra le due prove consisteva nel fatto che nel secondo test gli atleti indossavano un cuscino termico, posizionato nella tasca esterna alla loro t-shirt.

Cosa accadeva? I ciclisti, la seconda volta, riuscivano a mantenere la stessa velocità mediamente per 35 minuti, cioè 3 minuti in meno rispetto alla gara senza cuscino.

Si verificava quindi un peggioramento della prestazione, che, però, non era attribuibile a fattori fisiologici, in quanto tra la prima e la seconda gara restavano invariati: cioè, gli atleti non si accaldavano, nonostante il cuscino.

Indipendentemente da ciò, però, il contatto col cuscino caldo sembrava sufficiente ad influenzare i processi percettivi, cioè, si registrava un maggiore disagio termico soggettivo, nello specifico venivano misurati più alti livelli di discomfort termico e di percezione dello sforzo.

 

Il ruolo della percezione dello sforzo

Con percezione dello sforzo si intende la sensazione soggettiva di quanto duro e faticoso è un compito fisico.

Nell’incremento della percezione dello sforzo starebbe, secondo il modello teorico fatto proprio dagli studiosi (2), la chiave per comprendere il peggioramento della prestazione dei ciclisti.

La percezione dello sforzo, infatti, tenderebbe ad aumentare durante l’attività fisica (anche se questa rimane della stessa intensità), fino al livello percepito come massimo.

A quel punto, si postula che l’atleta decida di rallentare o di fermarsi.

Questo accadrebbe perché lo sforzo richiesto supererebbe la propria “motivazione potenziale”, cioè il massimo sforzo che si è disposti a compiere per portare a termine il compito, oppure perché persistere con uno sforzo troppo elevato verrebbe percepito come superiore alle proprie possibilità e capacità.

Indossando il cuscino termico, secondo i ricercatori, i ciclisti raggiungevano più velocemente quello che loro percepivano come massimo sforzo e quindi decidevano di terminare prima la gara.

Queste, quindi, le loro conclusioni: anche solo una percezione del caldo più intensa faceva rallentare i ciclisti – in quanto aumentava il loro discomfort termico ed incrementava più rapidamente la percezione dello sforzo – non era necessario che fossero effettivamente più accaldati.

 

I risultati dello studio applicati al trekking

Tradotto in contesto escursionistico, per esempio, durante un trekking estivo, in una giornata soleggiata e tendenzialmente afosa, un vestiario scuro e non traspirante, molto probabilmente, potrebbe incrementare l’intensità della percezione del caldo e quindi il nostro discomfort termico.

Camminare e continuare a farlo in tale stato di discomfort potrebbe inoltre far sì che percepiamo lo sforzo come massimo in tempi più rapidi e che perciò decidiamo di rallentare o di fermarci prima che se ci fossimo refrigerati od avessimo scelto un abbigliamento più adeguato.

E questo anche in assenza di variazioni significative a livello cardiorespiratorio, termoregolatorio e metabolico.

Le modificazioni, comunque, ci sarebbero a livello percettivo e, più in senso lato, psicologico ed impatterebbero in modo determinate sulla nostra prestazione.

Una maggiore consapevolezza su questi aspetti potrebbe aiutarci: potremmo infatti adottare comportamenti più funzionali alla prestazione e quindi migliorare la nostra esperienza escursionistica.

Alcuni consigli su comportamenti utili potrebbero essere:

  • scegliere un abbigliamento adeguato all’attività escursionistica estiva: capi chiari, traspiranti, cappellini che facciano ombra e proteggano dal sole, gilet rinfrescanti, collari refrigeranti;
  • durante l’escursione in clima caldo utilizzare spray, gel, soluzioni rinfrescanti al mentolo e spruzzare acqua, in particolare sul volto e sulla parte alta della schiena;
  • sempre nel rispetto del benessere e della salute, amplificare le condizioni di calore durante l’allenamento: per esempio, camminare nelle ore più calde della giornata, indossando abbigliamento pesante, scuro, anche tute autoriscaldanti, di solito utilizzate dai motociclisti.

Inoltre, potrebbe essere significativo lavorare sul proprio dialogo interno (self-talk), anche con l’aiuto di un professionista.

In primis allenandoci a prestare attenzione a come parliamo con noi stessi, cioè, per esempio, se e quanto tendiamo a focalizzarci sugli effetti negativi del caldo, dicendoci  frasi simili a questa: “Con questo caldo, non ce la farò mai ad arrivare in cima”.

Oppure se siamo spinti ad incoraggiarci con parole come:  “E’ caldo, ma ce la farai”.

Nel primo caso il rischio potrebbe essere che, ad un’iniziale sensazione di calore, segua il pensiero costante e sempre più pervasivo di quanto le temperature elevate rendano faticoso camminare.

Questa a sua volta ci spingerebbe a portare l’attenzione su quanto faccia caldo, ingenerando così un circolo vizioso, con l’effetto plausibile di incrementare l’intensità della percezione termica e quindi di rallentare sempre di più il passo, fino a fermarci.

 

Note:

  1. Van Cutsem, J., Roelands, B., De Pauw, K., Meeusen, R. & Marcora, S. (2019). Subjective thermal strain impairs endurance performance in a temperate environment. Physiology & Behavior, 202, 36-44.
  2. Van Cutsem e colleghi fanno riferimento al “Modello psicobiologico della prestazione di resistenza”. Per approfondimenti: Marcora, S. (2019), Psychobiology of fatigue during endurance exercise. In C. Meijen (Ed.), Endurance performance in sport (pp. 15-34). Abingdon, Oxon, New York, NY : Routledge.

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